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Parole di destra e parole di sinistra

di Carlo Buttaroni

Piaccia o no destra e sinistra hanno ancora ragione di essere. C’è un universo estetico e simbolico, speculare alla retorica dell’anti-politica e dell’uomo qualunque, che nell’opinione pubblica prende forma proprio attraverso parole e concetti, capaci di rappresentare precise categorie politiche.
Norberto Bobbio, in uno dei suoi più celebri saggi, scriveva che di fronte all’idea di eguaglianza, destra e sinistra operano su piani diversi. Non è di sinistra solo chi sostiene il principio che tutti gli uomini devono essere uguali, ma anche coloro che, pur riconoscendo le diversità, ritengono più importante ciò che li accomuna. Al contrario, gli inegualitari sono coloro che ritengono più importante, per attuare una buona convivenza, promuovere le diversità.

Le differenze tra destra e sinistra, naturalmente non si esauriscono intorno al concetto di eguaglianza, ma si ritrovano anche in altre parole, concetti, significati. Come, ad esempio, l’idea di “luogo” e di “tempo”. L’uomo di destra, infatti, si considera prevalentemente “figlio di un luogo” segno di continuità, di trasmissione di principi superiori al mutamento; l’uomo di sinistra, invece, si considera “figlio di un tempo”, protagonista di un’epoca e di una generazione. E mentre il primo coltiva l’idea di “governo del luogo e della tradizione”, il secondo promuove il “governo del tempo” e delle sue trasformazioni.

Per questo motivo – come ricorda Marcello Veneziani – una cultura che assegna importanza al “luogo” e quindi alle radici e alla comunità, vedrà sempre l’immigrazione come un fenomeno da arginare.

Parole di destra e parole di sinistra dunque, che identificano chi parla e chi ascolta. Capaci di narrare, evocare una storia, descrivere orizzonti. Parole che si sono nutrite delle ideologie del novecento ma che, ancora oggi, hanno la forza di simboli e significati collettivi.

I partiti, nel loro linguaggio, le hanno archiviate troppo in fretta, esorcizzandole con tecnicismi e burocratismi spesso incomprensibili. Forse proprio per la loro forza evocatrice di campi differenti. D’altronde la politica in questi anni è andata nella direzione opposta. In nome di una modernità che adesso sta facendo pagare i conti delle sue contraddizioni, ha tenuto insieme visioni che la storia, per secoli, ha collocato su piani opposti. Una convivenza tra il tutto e il suo contrario, nell’estremo tentativo di realizzare ciò che in linguistica si chiama opposizione partecipativa: essere una cosa e il suo opposto, senza distinzioni e senza gerarchie. A vario titolo in questi anni, tutti i partiti si sono definiti, allo stesso tempo, liberali e progressisti, radicali e moderati, riformisti e conservatori, laici e cattolici, rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori. Un caleidoscopio di offerte politiche che si riflette nelle candidature alle elezioni, dove hanno trovato spazio, sotto lo stesso simbolo, interessi diversi e spesso divergenti. Una convivenza schizzofrenica che si è potuta realizzare soltanto dividendo il cittadino in tante categorie di consumo, che non contemplano la pienezza dell’individuo, ma solo alcuni suoi comportamenti.

L’elite politica di conseguenza si è adeguata. E dall’intellettuale organico – custode professionale dell’impegno e del patrimonio teorico e valoriale – si è passati alla leadership tecnocratica dei professori, espressione di una comunità connotata da specifiche competenze, più che dalla condivisione di comuni appartenenze.

Anche nella comunicazione che accompagna la politica si è rimosso il comune sentire di un’identità condivisa, permettendo che prevalessero logiche di “consumo” che hanno amplificato, con i nuovi potenti mezzi messi a disposizione dalla tecnologia, promesse generiche come vuoti a perdere: meno tasse, più lavoro, stipendi più alti, più giustizia, sanità più efficiente, più servizi sociali, blocco dei prezzi, blocco dei mutui, città più sicure, università migliori, meno traffico, meno precarietà, più ponti, più strade. Insomma, più promesse per tutti. Poi si vedrà.

Il “bene comune”, che dovrebbe essere alla base dell’agire politico, nel linguaggio politico trova sempre meno spazio. Ha lasciato il posto alla convenienza individuale, ai bisogni legati a logiche di mercato, alla ricerca di una soddisfazione effimera da consumare subito. Ma così facendo la politica ha perso la sua essenza che è quella di fare scelte che derivano dall’illimitatezza dei bisogni rispetto alla limitatezza delle risorse. Perché la politica, nello scegliere, definisce priorità, campi, interessi, appartenenze. E se la politica non sceglie, diventa un contenitore generico di istanze individualistiche. E come ogni sistema privo di gerarchie, è destabilizzato e destabilizzante, perché le certezze crollano e tutto diventa grigio e indistinto.

Non può sorprendere che la fedeltà di voto sia un elemento che agisce sempre meno nel momento elettorale, perché tutto avviene all’interno di un quadro d’indeterminatezza, senza criteri stabili e definiti. La conseguenza di ciò è che al voto di appartenenza è progressivamente subentrato quello di opinione, come testimonia anche il crescente tasso di volatilità elettorale e la diminuzione della partecipazione.

Prima dell’avvento della democrazia mediatica, anche attraverso parole cariche di significati, il linguaggio politico rimandava a un’appartenenza. E nella distinzione favoriva quei processi cognitivi e decisionali che conducevano alla scelta di un’identità, da cui discendeva un determinato comportamento elettorale. Oggi, l’avvento del linguaggio tecno-burocratico, ha prodotto smarrimento dell’ispirazione sociale e apatia nei confronti dei partiti. E ha fatto crescere il suo opposto: una miscela di iperdemocraticismo plebiscitario e di iperpersonalizzazione della politica, entrambi favoriti da ciò che è stata variamente definita come telecrazia, telepopulismo, videopolitica.

Un processo che ha svilito i tradizionali canali della democrazia rappresentativa. Le tv e i giornali si sono sostituiti ai partiti nella selezione della classe politica, sono diventati strumenti di mobilitazione dell’opinione pubblica e agenti in grado di definire un’appartenenza provvisoria priva di consapevolezza. Nella democrazia mediatica la politica è diventata un’attività da poltrona: assistere ha sostituito la necessità di giocare sul campo, partecipare significa essenzialmente guardare. Il tutto accompagnato da una progressiva omologazione dei programmi politici: si pensi ai temi etici, praticamente scomparsi dall’agenda politica, o alle posizioni in tema di globalizzazione, competitività, privatizzazioni, riforma del welfare, flessibilità del lavoro, anti-egualitarismo. Tutti argomenti su cui, di fatto, sono andate in corto circuito le differenze tra sinistra e destra, in favore di un politicismo che appare sempre più distante, tecnocratico e autoreferenziale.

Tutto questo non ha fatto che rompere il nesso causale fra appartenere a una classe sociale e averne coscienza, imponendo una polverizzazione delle modalità di concettualizzazione della politica.

In passato l’appartenenza a un comune humus etico, culturale, sociale e morale, ancorava gli individui a un determinato sistema di valori e simboli, con l’assunzione di significati collettivi relativamente forti e coesi. Oggi, formalmente, non è più così. Tant’è che anche destra e sinistra non sono parole usate più da sole, ma diluite in un prefisso comune agli opposti schieramenti: centro-sinistra e centro-destra. Esclusi tecnici e professionisti, però, nel linguaggio comune, nessuno li definisce così, presupponendo una centralità comune ai due opposti campi politici. Per la grande maggioranza delle persone c’è la sinistra e c’è la destra. E le differenze non sono solo formali, ma anche nella forza dei simboli e delle parole che ne accompagnano i significati. Nel comune sentire, ancora oggi, l’appartenenza politica si esprime attraverso differenze che hanno molto a che fare con la visione dei diritti e dei doveri, con la concezione del tempo e del futuro, con una certa idea della storia e delle tradizioni, con la gerarchia dei valori e dei bisogni. E nell’immaginario collettivo la politica ancora si alimenta di parole, che pur venendo dal passato, spiegano e raccontano, nutrendosi di significati e di simboli che danno corpo a una visione della società e della convivenza civile.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 12 dicembre. Qui la ricerca completa

 

2 Commenti per “Parole di destra e parole di sinistra”

  1. […] fonte:  Parole di destra e parole di sinistra Aggregato il   12 dicembre, 2011 nella categoria Banche, Finanziamenti, Online, Statistiche […]

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