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Tangentopoli, così venti anni dopo

di Antonio Caputo

Era di lunedì quel 17 febbraio di venti anni fa, che cambiò la storia d’Italia. Era di lunedì, quando fu arrestato dai carabinieri per concussione, nell’indagine condotta dal sostituto procuratore di Milano, Antonio Di Pietro, il socialista Mario Chiesa, presidente, per conto del partito di Craxi, dell’istituto per anziani Pio Albergo Trivulzio.
Arrestato Chiesa, per due mesi il clamore si calmò; l’inchiesta riprese a fine aprile, ampliandosi e travolgendo prima l’amministrazione comunale imperniata sull’asse PSI – PDS (“Laboratorio Milano” di quell’unità socialista cara a Bettino Craxi), per poi dilagare fino a coinvolgere parlamentari e vertici nazionali dei partiti di governo, DC, PSI, PSDI, PLI, più il PRI, al governo fino a un anno prima e che localmente continuava a collaborare con DC e PSI; più marginale, ma tutt’altro che assente, specie nei primi mesi, il coinvolgimento del PDS.
Il “Pool Mani Pulite” di Milano, guidato dal procuratore Francesco Saverio Borrelli, affiancato dal numero due, Gerardo D’Ambrosio e da una squadra i cui componenti erano Antonio Di Pietro (certamente il volto più noto), Gherardo Colombo, Pier Camillo D’Avigo, Francesco Greco e Tiziana Parenti, fu il cuore pulsante dell’inchiesta: i magistrati, appunto, dalle “Mani Pulite” si contrapponevano alla città del malaffare, detta “Tangentopoli”.
Sin da subito, lo scoperchiamento del sistema corruttivo che infestava il Paese (tanto più intollerabile perché allora, come oggi, in crisi economica e alle prese con un debito pubblico spaventoso), generò una popolarità grandissima (amplificata da tv e stampa) per i magistrati, dall’opinione pubblica visti come gli eroi senza macchia che liberavano l’Italia da un sistema partitocratrico percepito ogni giorno di più come un regime.
Proprio il suo dilagare (e non solo nel capoluogo lombardo, dove le inchieste si allargavano ogni giorno, ma a livello nazionale, con numerose procure che seguivano l’esempio dei colleghi meneghini) fece perdere quasi subito all’inchiesta il suo carattere eminentemente giudiziario, per fargliene acquisire uno più propriamente politico. D’altronde, il processo simbolo di Tangentopoli, quello sulla maxi tangente Enimont, che vide alla sbarra i segretari dei partiti di maggioranza, era nei fatti il processo alla Prima Repubblica.
Un bilancio di Mani Pulite, a 20 anni dal suo inizio: nei giorni scorsi, l’Unità titolava in prima pagina la delusione per la rivoluzione fallita. Come non concordare? La corruzione non è stata sconfitta, anzi: è di ieri la denuncia della Corte dei Conti sul malaffare che prospera e che costa annualmente 60 miliardi di euro. D’altronde: parlamentari oggetto di richieste d’arresto, scandali che si susseguono, dalla Sicilia alla Lombardia, dalla Campania alla Puglia, dimostrano come il malaffare permei in profondità il tessuto economico – politico italiano.
Talvolta la situazione è anche peggiorata: all’epoca si rubava per il partito, ossia i soldi presi dalla politica erano soprattutto finanziamenti in nero ai partiti, per foraggiare una lotta politica assai aspra tra forze che avevano visioni del mondo opposte (era un altro clima con la divisione del mondo in blocchi); prova di ciò è che in molti casi le accuse di corruzione e concussione decaddero, restando in piedi solo quella di finanziamento illecito ai partiti. Oggi è peggio, dato che chi ruba lo fa per sé, essendo sostanzialmente scomparsi i partiti, quasi senza più strutture e ridotti in pratica a cordate di interessi personali o di clan.
Ma per il fallimento di Mani Pulite, due sono i soggetti sul banco degli imputati: uno, va da sé, la politica che non si è auto riformata (le poche leggi che ha fatto in questi anni hanno peggiorato le cose); l’altro la magistratura stessa, che, come affermato dall’ex presidente Ciampi, non deve solo essere imparziale, ma anche apparirlo.
E qui qualche critica alle toghe va mossa: condanne avvenute sul “non poteva non sapere”; l’aver forzato la mano con arresti preventivi finalizzati alla confessione; distorsione di strumenti di indagine come le intercettazioni; violazione, in più d’un caso, del principio di competenza, con Milano quasi procura omnibus; l’essersi mossi soprattutto in una direzione; il tutto ha dato, a torto o a ragione, ai cittadini l’impressione di una qualche parzialità, e alla politica l’alibi per non riformarsi e gridare al complotto, comportandosi peggio di prima.
Gli eccessi di venti anni fa hanno indotto nell’opinione pubblica un sentimento assai diverso da allora, per cui nel 1992/94 un politico finito sotto inchiesta era ipso facto bollato come colpevole (un pessimo esempio di ciò furono le monetine lanciate a Craxi); se la cosa accade oggi, si tende a pensare: qualcosa ci sarà, ma forse viene indagato perché il magistrato è suo avversario politico (devastante per la credibilità delle istituzioni). E’ stato proprio questo a minare la credibilità del cane da guardia, che, per aver abbaiato a volte a sproposito, si ritrova non più creduto, permettendo in tal modo ai ladri di far bottino più di prima. Così, delle speranze suscitate, e dei meriti, indiscutibili, guadagnati sul terreno da Mani Pulite, a venti anni di distanza rischiano di rimanere sul terreno quasi solo macerie.

Leggi anche:
Venti anni fa. La politica dopo Mani Pulite
La corruzione: un muro per la crescita

 

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