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L’area del non voto batte tutte le coalizioni

di Carlo Buttaroni

A sentire i protagonisti di ieri, che calcano le scene di oggi, sembra che nulla sia accaduto. Invece tutto è già successo. Senza una trascinata agonia, come accadde nel passaggio tra la prima e la seconda repubblica, e con una velocità che non ha precedenti nella storia recente. Un’accelerazione che ha imprigionato i partiti in una terra di mezzo, dove ciò che era prima non c’è più e dove ancora manca un indizio che parli al futuro. E’ vero che, in termini relativi, il PD si conferma prima forza politica con il 27% e il PDL scende al 23%, con una perdita di oltre 14 punti rispetto alle politiche del 2008. Ma è un dettaglio rispetto a quanto sta accadendo nelle dinamiche più generali che riguardano la struttura del sistema politico nel suo complesso. In termini assoluti (cioè considerando tutti gli elettori) sta prendendo corpo qualcosa di più profondo rispetto alle dinamiche osservabili in superficie, testimoniato proprio dai dati dell’indagine realizzata da Tecné.
Innanzitutto, i due principali partiti hanno perso, rispetto a quattro anni fa, il 30% dei consensi. Oggi, la somma dei voti che otterrebbero insieme è pari al 27,7% degli aventi diritto, rispetto al 54,7% del 2008.
In secondo luogo la perdita di consenso dei due principali partiti non si compensa all’interno dello stesso schieramento, né si orienta verso il campo opposto, ma si dispone verso l’area dell’astensione. Se si votasse oggi, infatti, sceglierebbero un partito di centrodestra o uno di centrosinistra, solo il 42,6% degli elettori, mentre, nel 2008, l’area del consenso, polarizzato all’interno delle due principali coalizioni, riguardava 7 elettori su dieci.
Terzo aspetto: l’area del non voto è salita al 44,6%, superando, per la prima volta, l’insieme dei consensi convergenti su opzioni alternative rispetto al governo del Paese. Un rovesciamento dei rapporti che indica che si è fortemente ridotta la capacità attrattiva dei due principali partiti e, conseguentemente, delle due principali opzioni politiche. Una forza di gravità che, fino a qualche anno fa, i partiti erano in grado di esercitare nei confronti degli elettori, orientandoli e attivando consensi rispetto a ipotesi alternative di governo.
Ma se è sbagliato pensare di interpretare i sondaggi, come una bocciatura o una promozione, altrettanto sbagliato è interpretare il calo della partecipazione come il manifestarsi di un diffuso sentimento di antipolitica.
Sembra emergere, invece, una forma di apatia verso le tradizionali espressioni della politica, dovuta non tanto alla distanza dai luoghi istituzionali ma al declino di una cultura dell’impegno che aveva segnato profondamente il secolo scorso. Nel calo della partecipazione tradizionale non c’è, infatti, il segnale di un rifiuto, quanto di una trasformazione delle modalità che danno corpo ad atteggiamenti e comportamenti nuovi. Un processo che corrisponde a un cambio di prospettiva, che non parla solo italiano: i cittadini delle società contemporanee sono sempre meno favorevoli a sostenere le gerarchie istituzionali e le grandi organizzazioni come i partiti di massa, perché vogliono incidere direttamente nella cosa pubblica. E vogliono farlo in forme non tradizionali. Questa spinta ha portato verso un cambio dei paradigmi riconducibili all’impegno politico tradizionale, particolarmente visibile nelle nuove generazioni, più esposte ai processi di cambiamento valoriale e al post-materialismo.
I cittadini non sono distaccati dai valori civili e democratici, non sono disimpegnati. Al contrario, diventano sempre più competenti, interessati, e si mobilitano prevalentemente in forme non convenzionali, all’interno di piccole organizzazioni e gruppi, spesso informali. Più che crisi del rapporto con la politica, prende forma una trasformazione delle modalità con le quali si sviluppa questo rapporto, esprimendosi in nuove forme di partecipazione.
Questo cambiamento ha avuto anche un’altra direzione, più esterna ai circuiti politici, orientata verso nuove forme d’impegno, perché se la politica tradizionale perde importanza e la militanza cambia, questo non fa venire meno la voglia di partecipare. La partecipazione oscilla da forme più impegnate a forme più leggere, con modalità di mobilitazione più discrete, dove manca un carattere ideologico strutturato, tanto che i cittadini faticano a definirsi “politicamente attivi”. Un impegno che corrisponde a un’articolazione multi-dimensionale della società e della politica, dove le attività sono ispirate da motivazioni differenti e persino divergenti all’interno dello stesso ambito.
Se si assiste a un progressivo indebolimento della fedeltà di partito è perché il focus dell’impegno si è spostato progressivamente da azioni partecipative dentro i partiti, ad azioni auto-dirette all’interno dei nuovi ambiti in cui si articola la società.
Mentre in passato i partiti garantivano l’inclusione di larghe fasce di popolazione, anche socialmente periferiche, attraverso la mobilitazione ideologica e una capillare presenza sul territorio, oggi i cittadini vivono le condizioni di una partecipazione atomizzata, che da un lato si alimenta di maggiori opportunità e canali per esprimersi, ma dall’altro si presenta più irregolare, episodica, meno vincolante, quasi completamente protesa fuori dai tradizionali luoghi della politica. Il rischio non è tanto quello di una chiusura nella sfera privata, quanto di una marginalizzazione delle esperienze di impegno dentro ambiti talmente ristretti da essere inadeguati ad alimentare un ethos pubblico.
La sfida diventa così quella di definire una nuova cittadinanza attraverso l’esplorazione e l’attribuzione di senso alle soggettività individuali e alla soggettività collettiva, restituendo alla politica il suo originario significato di costruzione creativa, traendo forza proprio dalle nuove forme di partecipazione. Un ritorno alla Polis, cioè, che costantemente trasforma la propria esistenza nel comune spazio di discussione, scambio e partecipazione tra i membri della comunità.
D’altronde la politica non è una dimensione che ha origine in se stessa o che vive di vita propria. E’ un epifenomeno, un prodotto della mente e della cultura, e per questo porta i segni indelebili della storia. Ed è ciò che rappresenta il fondamento del comportamento politico e della natura sociale dell’uomo, che deve spingere la politica alla progettualità, alla pensabilità, alla realizzazione di trasformazioni che partano dal basso, dall’esperienza quotidiana che diventa forma e pratica.
Per ricucire il legame con i nuovi cittadini, meno sensibili al richiamo ideologico, occorre rovesciare i paradigmi che hanno ispirato le scelte dei partiti negli ultimi anni, puntando sulla realizzazione di reti orizzontali piuttosto che su intelaiature verticali, portando la politica nei luoghi, anziché i luoghi alla politica. Non è sufficiente utilizzare i social network per essere al passo con i tempi. I tentativi, anzi, appaiono persino goffi. C’è un’inflazione di partiti e di politici che occupano la rete in modo improprio e con linguaggi inadeguati, che ritengono internet un nuovo “strumento” per raccogliere adesioni da contabilizzare con i vecchi metodi, quando, invece, internet è un “luogo”, dove le idee e i progetti possono prendere forma e maturare in una dimensione politica veramente nuova, senza per questo sovrapporsi o necessariamente intrecciarsi con il vecchio. Innovare usando facebook e gli altri social come fossero sedi di partito virtuali, o twitter come un ufficio stampa più fashion, è solo il segno dell’incapacità di leggere il mondo e i suoi fenomeni.
Un esempio diverso viene, invece, dagli Stati Uniti, dove sono attive da tempo organizzazioni che si occupano di far crescere l’impegno e la sensibilità politica direttamente all’interno degli ambiti di partecipazione. Come “Rock the Vote”, che si propone di stimolare l’impegno politico dei giovani, utilizzando i luoghi, i linguaggi, i tempi più adatti, e gli stessi giovani come protagonisti. Un approccio assai diverso dal pubblicare su un sito internet o su una pagina facebook, la convocazione di un’assemblea o l’invito a tesserarsi, sia pure in modo virtuale.
Anche la scelta fatta in alcuni Paesi di abbassare a 16 anni l’età per votare si muove nella direzione di ampliare la cittadinanza politica e promuovere la partecipazione.
E’ evidente, però, che anche buone pratiche e buone iniziative, da sole non bastano. Per quanto possano produrre un avvicinamento o una nuova inclusione, il problema da risolvere, nella società multidimensionale, è quello della rappresentanza. Persino le nuove generazioni, alle quali il sistema delle appartenenze stabili e radicate non ha più molto da dire, chiedono alla politica più attenzione e sensibilità, insieme a un maggiore coinvolgimento nella progettazione e nella gestione delle politiche pubbliche.
Occorre esplorare strade nuove. Questo è l’obiettivo che il sistema politico deve porsi per frenare l’erosione della partecipazione e per trasformare un’azione, come quella del voto, in partecipazione piena e consapevole. E per farlo deve ritornare a pensare dal basso perché, per quanto paradossale possa sembrare, le grandi sfide trovano risposte soltanto in un sistema diffuso di governo della società, dove la Polis ha una dimensione politica e non solo amministrativa. Le riforme istituzionali, comprese quelle elettorali, possono fare molto ma non sono sufficienti se non s’innestano positivamente con una cultura capace di recuperare una dimensione partecipativa che non si è indebolita, ma ha assunto soltanto nuove forme di espressione.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 20 febbraio. Qui la ricerca completa realizzata da Tecnè.

 

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