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Lavoriamo di più, produciamo di meno

di Fabio Germani

Che il clima sia particolarmente teso lo si capisce dalle recenti, infelici battute di molti esponenti di governo e, da ultimo, della presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. Così agli sfigati che non si laureano entro i 28 anni (Michel Martone), alla chimera certificata del posto fisso (Mario Monti) e alla riesumazione dei bamboccioni della ministro Cancellieri, si aggiungono i “fannulloni” (in questo caso il copyright appartiene però a Brunetta) e i “ladri” evocati dalla leader degli industriali. In sostanza Marcegaglia ha sì sottolineato che “la modifica dell’articolo 18 da sola non risolve i problemi” del mercato del lavoro ingessato, ma ha anche ribadito l’opportunità di “una maggiore flessibilità in uscita” che “aiuterebbe le imprese, rendendo il mercato più fluido”. Per fare questo – qui la frase incriminata – non è auspicabile “un sindacato che protegge gli assenteisti cronici, i ladri, i fannulloni”. In termini più “appropriati” sarebbe come a sostenere il “no” all’intransigenza dei sindacati sull’articolo 18 e sulle altre questioni al centro delle trattative.
Lasciando da parte le reazioni dei chiamati in causa (ce ne siamo già occupati martedì e piene sono le pagine dei giornali di oggi), viene da chiedersi quali ragioni – se ve ne sono – argomenta Emma Marcegaglia. Perché, come nei casi ricordati in precedenza, non è da escludere che dietro una frase detta male si celi tuttavia una triste verità. Ha provato a rispondere al quesito Michele Di Branco sulle pagine del Messaggero e a leggere i dati emerge una volta di più come quello dell’articolo 18 non sia da ritenersi, da solo appunto, un tema dirimente.
Innanzi tutto viene fatto notare che gli italiani non sono degli scansafatiche, anzi. Noi lavoriamo 1.778 ore all’anno, quando la media europea è di poco inferiore alle 1.600. I tedeschi lavorano 360 ore in meno e i francesi 278 (dati Eurostat). E anche riguardo il tasso di assenza per malattia c’è poco da stare a recriminare: 6,7 giorni in Italia contro una media europea di 7,4 giorni.
Ma se il mercato del lavoro è bloccato molto si deve anche alla scarsa produttività. Il costo del lavoro per unità di prodotto, infatti, è a livelli più alti che nel resto d’Europa. Nel 2011 – ricorda Il Messaggero – l’Ocse ha posizionato l’Italia all’ultimo gradino tra i maggiori Paesi industrializzati “per incremento della produttività del lavoro (Pil per ora lavorata) nell’ultimo decennio” con un differenziale “dell’1,7% rispetto alla media europea”. In particolare “il costo del lavoro per unità di prodotto è salito del 30% negli ultimi 15 anni mentre in Germania è diminuito del 3%”.
“In Germania – spiega Di Branco – il valore aggiunto per occupato nel settore manifatturiero (che è calcolato come rapporto tra il valore aggiunto dell’impresa e il numero di addetti, ndr) è di 67,5 mila euro. In Italia si ferma a 51 mila”, vale a dire sotto di cinquemila euro sempre rispetto alla media europea. In definitiva la produttività nel nostro Paese ha registrato un evidente calo del 2,7% nel quadriennio 2007-2010, tranne che nel settore dell’agricoltura (la flessione si era però iniziata a manifestare a partire dal 2000 mentre fino agli anni ’80 l’Italia era al vertice tra gli industrializzati per produttività oraria dei lavoratori, dati Istat).

 

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