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Agenda digitale: i ritardi culturali e strutturali dell’Italia

di Fabio Germani

Nelle ultime settimane abbiamo più volte evidenziato su queste pagine come i ritardi strutturali e culturali in ambito Ict abbiano pesato negativamente sulla nostra economia. Sono le statistiche a dirlo: internet vale il 2,5% del Pil italiano. Che di per sé non è poco, ma neppure abbastanza se confrontato con le altre realtà (in Gran Bretagna, ad esempio, si attesta attorno al 7%). L’istituzione di un’agenda digitale è tra i dettami dell’Ue e l’obiettivo dovrà essere raggiunto entro il 2020. Il traguardo è nelle intenzioni dell’attuale esecutivo, ma partiamo ad ogni modo svantaggiati e siamo ora costretti a rincorrere i partner europei.
“La politica Italiana – spiega a T-Mag Davide Bennato, professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Catania – non ha mai preso sul serio internet come strumento di avanzamento economico e sociale, basti pensare ai fondi che sono stati dirottati dai progetti di banda larga ad altre attività. Il vero problema non è tanto l’innovazione, tema di cui si parla tanto ma spesso tradotto in azioni politiche poco concrete, ma la consapevolezza che un’agenda digitale con degli step riconoscibili e condivisi possa avere senso solo se integrata con politiche di ampio respiro e sistemiche”.
Dunque la domanda è: quali sono le nostre maggiori lacune? “A mio avviso – risponde il professore – il settore su cui siamo carenti sono senza dubbio le infrastrutture: una connettività tramite cavo degna di questo nome, una rete wireless (wi-fi o wimax) efficiente e funzionale. Il ritardo culturale secondo me è evidente: l’assenza di investimenti di lungo periodo, la cecità di politiche per le imprese che apra verso il mondo delle startup, strumenti fiscali di agevolazione delle imprese nel settore del mercato internet testimoniano la miopia politica che ha caratterizzato l’atteggiamento della classe dirigente. La strategia è quella di fare sistema: scuola, ricerca, università, impresa devono cooperare per lo sviluppo di un’economia che si muove su internet e grazie ad internet. Che senso ha avere milioni di italiani su Facebook senza che però la cultura delle startup del digitale sia sostenuta da politiche ad hoc?”.
A proposito di politica. Bennato, che è anche il direttore di ricerca su media digitali, consumi e comunicazione della Fondazione Luigi Einaudi di Roma, dice la sua sull’utilizzo dei social network da parte degli esponenti politici. E dalla disamina non emerge un quadro particolarmente lusinghiero. “La politica – afferma – ha appena scoperto il potenziale dei social media e sta facendo molti degli errori frutto dell’applicazione di logiche d’uso che provengono dalla visibilità televisiva. Pensiamo ai profili Facebook: moltissimi parlamentari italiani usano questa piattaforma, ma l’interazione che instaurano spesso non va al di la della promozione delle proprie attività, raramente instaurando un dialogo con amici o follower che siano. L’uso politico di Twitter è emblematico, spesso i politici si parlano tra loro, quasi mai interagendo con chi pone delle questioni e non appartiene al proprio entourage. È un momento di confusione e di sperimentazione del web sociale da parte della politica, che finirà quando sarà chiaro che sono spazi sociali e mediali pensati per il dialogo, non per la propaganda”.
C’è ancora il tempo per uno scambio di battute sull’annosa questione del diritto d’autore. Ultimamente abbiamo assistito a diversi tentativi di tutelarlo a scapito della libertà di espressione online (il PIPA e il SOPA negli Stati Uniti così come l’accordo ACTA che comprende anche l’Unione europea). “E’ cominciata l’offensiva del mercato globale contro la rete espressione di libertà e apertura – sostiene Bennato -, con il rischio, tutt’altro che remoto, di usare una legittima politica anti-pirateria in uno strumento in grado di limitare le libertà civili che sono alla base di un uso aperto e democratico di internet”. Il problema non è da poco, fa notare il professore. “L’equilibrio fra diritto alla proprietà e libera circolazione delle idee e della cultura nella forma di contenuti digitali è molto delicato e ci sono delle sperimentazioni in questo senso, penso per esempio al progetto Creative Commons. Ma PIPA, SOPA e ACTA non mi sembrano strumenti in grado di dirimere questo dilemma, anzi sono frutto di logiche corporative e protezioniste che rischiano di ingabbiare la cultura, il sapere e la libertà di espressione. La protezione della proprietà intellettuale – conclude il professore – non può e non deve azzoppare lo spazio di libertà che negli ultimi anni è stato internet”.

 

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