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Il ruolo della politica nell’epoca della crisi

di Carlo Buttaroni

Nella società che non attende e non si affida, sembra crescere una nuova e diffusa forma di malattia sociale: la malinconia. I pensieri si fanno sempre più disordinati, appiattiti nella superficialità di un’esistenza spogliata da valori e orientamenti. I rapporti si fanno anonimi, privi di coinvolgimento, e cresce un sentimento d’infelicità e di tristezza, come per una promessa tradita che dà corpo alla sensazione di vivere ai confini di una realtà incerta, abbandonati all’insicurezza d’indefinibili orizzonti.
Eppure per molto tempo si è creduto che il cammino dell’uomo sarebbe stato un progresso inarrestabile, che non avrebbe incontrato ostacoli né subito interruzioni. Il futuro avrebbe accumulato nuove conquiste, non solo scientifiche e tecniche, ma anche morali e politiche, sempre più elevate. Nel Settecento, questa è stata la convinzione di autori come Voltaire e Turgot e nell’Ottocento l’idea di un progresso ascendente ha costituito il centro del pensiero di filosofi come Hegel, Comte e Marx.
Discutere faccia a faccia con il creatore: era questa la promessa che l’umanità aveva fatto a se stessa. Una promessa mancata visto che, oggi, prevale un clima di pessimismo che evoca un domani molto meno positivo, dove la positività pura si trasforma in negatività, e la stessa promessa si è trasformata in minaccia. Certo, le conoscenze si sono sviluppate in modo incredibile ma, sembrano incapaci di alleviare la sofferenza umana, gettandoci contemporaneamente in una forma d’ignoranza molto diversa dal passato, ma forse più pericolosa, che ci rende impotenti di fronte alle nostre infelicità e ai problemi che ci minacciano. E non perché la scienza non sia abbastanza evoluta e perfezionata, ma perché la promessa di un “mondo nuovo” e di un “uomo nuovo”, finalmente libero dalla sofferenza, non è stata mantenuta e l’uomo si è scoperto indifeso di fronte alla constatazione che in mancanza della felicità, come scriveva Freud, bisogna accontentarsi di evitare l’infelicità.
Se l’universo è scritto in linguaggio matematico, come affermava Galileo, lo sviluppo dei saperi avrebbe dovuto decifrarlo. E’ in questo senso che la promessa non si è realizzata. La scienza non ci ha installati in un universo di saperi deterministici tali da consentirci di dominare il futuro. Un’incertezza che non significa una sconfitta della ragione, perché la promessa mancata non è il fallimento della scienza, ma soltanto la prova della sua inadeguatezza a diventare completa anche nei tratti che riguardano l’uomo e i suoi livelli interiori. La sconfitta dell’ottimismo ci lascia senza promesse future e con il timore che, oggi, persino evitare l’infelicità sia un obiettivo troppo arduo.
Stiamo assistendo a un cambio di segno, al passaggio da una fiducia smisurata a una diffidenza altrettanto estrema, che non ha riscontro con la realtà storica che continua a descrivere, nel lungo periodo, un miglioramento delle condizioni di vita degli individui. A entrare in crisi è la nostra percezione del futuro. Un futuro che non è semplicemente ciò che ci capiterà domani, ma ciò che ci distacca dal presente, ponendoci in una prospettiva antistorica. Un cambio di segno che sembra rompere lo storicismo teologico della scienza. Sembra un paradosso: la scienza fa progressi incredibili nella conoscenza del reale, ma la nostra è la prima grande società dell’ignoranza, perché il rapporto che abbiamo con le scienze – e con le tecniche che le governano – è di estraneità assoluta. Ogni società del passato ha posseduto delle tecniche, ma i suoi membri conservavano con esse un rapporto di padronanza. Gli strumenti non funzionavano secondo una logica indipendente da ogni comprensione umana e filosofica, la techne era l’arte di saper fare bene, la comprensione contestuale del mezzo e del fine.
La nostra società è la prima che possiede delle tecniche evolute e ne è, al tempo stesso, posseduta. Ci limitiamo a premere pulsanti, ignorando quali meccanismi attivino. E talune volte comprendiamo solo genericamente anche gli effetti. Un’ignoranza che produce una soggettività straniata, un sentimento di esteriorità rispetto al mondo stabilizzato della tecnica. Persino gli altri, i nostri simili, diventano oggetti d’uso e i giovani sono continuamente sollecitati a diventare predatori dell’ambiente che vivono ma che gli è pericolosamente estraneo e ostile. Questo è la schizzofrenia che viviamo quotidianamente. E se, per un verso, immaginiamo una scienza che ci offra le comodità che ancora non abbiamo, dall’altra parte soffriamo l’ignoranza di non sapere minimamente come possa essere orientato o dominato quel favoloso mondo della luce che genera però, al tempo stesso, oscurità ed enigmi.
Per dirla con Spinoza – e con i due grandi psicanalisti Benasayang e Schmit – viviamo l’epoca delle passioni tristi, dell’impotenza e della disgregazione delle antiche certezze.
Perché, come scriveva Hursell, nei momenti di disperazione dell’esistenza la scienza non ha nulla da offrire, e le questioni che elude, per principio, sono proprio quelle scottanti di un’umanità abbandonata a se stessa nella ricerca del senso della vita, nel momento stesso in cui la scienza insegue l’immortalità.
Per questo, anche se le conoscenze non smettono di progredire, il futuro resta più che mai imprevedibile e sembra gettare l’umanità in un’impotenza assoluta, come se l’espansione dei saperi non potesse trovare alcun limite e alcuna risonanza in una riflessione capace di orientarli. La crisi che stiamo vivendo si manifesta nell’incapacità di elaborare un pensiero che consenta di uscire dal suo effetto collaterale più evidente: vivere la vita in uno stato di costante emergenza.
Resta, però, la certezza che questo stato di cose si può superare. E che forse il pessimismo di oggi è esasperato quanto l’ottimismo di ieri. Nel passaggio dal mito dell’uomo costruttore del proprio futuro, al suo opposto simmetrico e speculare, della sua totale impotenza di fronte alla complessità del mondo, cresce la consapevolezza che una pura conoscenza scientifica non esaurisce la complessità del reale e l’aspirazione alla felicità. La stessa esistenza umana ha bisogno – per essere definita in maniera completa – di criteri che siano espressione di una tensione etica e morale interiore, perché la realtà umana, alla fine, esige anche che ci siano dimensioni che non siano esclusivamente sotto il dominio della tecnica. E, infatti, la “grande scienza” è una realtà umanistica globale, l’iscrizione a un progetto di società nuova. O a qualcosa che sembra assomigliargli molto.
La crisi della certezza ci espone al rischio di suggestioni assolutiste nel momento in cui sembra avverarsi la profezia di Spengler, che all’inizio del Novecento sosteneva che le civiltà così come nascono e crescono, allo stesso modo invecchiano e muoiono; e quando una civiltà declina, i valori che l’hanno ispirata, si dissolvono. All’anima subentra un razionalismo deviato, la democrazia trasforma il popolo in una massa senza forma, la politica non dirige più l’economia ma è subordinata a essa, il denaro diventa la suprema potenza della società.
E’ innegabile il fascino che può suscitare il pensiero spengleriano, nel momento in cui sembra descrivere l’attuale crisi, interpretandola come l’ultimo atto del declino della nostra civiltà.
Ma è lo stesso fascino pericoloso che ha ispirato la nascita dei regimi totalitari del secolo scorso, facendo leva proprio su quel sentimento di antipolitica che sembra segnare anche la nostra epoca. L’analisi di Spengler è stata bocciata dalla storia e dal pensiero democratico che si è affermato in seguito, proprio da quel fallimento. E la crisi del nostro tempo è iscritta in un periodo troppo breve perché rappresenti la prova a posteriori della validità delle tesi spengleriane. D’altronde l’unità di misura della storia sono i secoli, ed è evidente che, rispetto a cento o duecento anni fa, per non andare a epoche ancora precedenti, le condizioni di vita degli individui sono notevolmente migliorate, sotto tutti i punti di vista. Si può dire, al contrario, che l’affermazione della democrazia ha rappresentato il motore di un progresso civile che non ha precedenti nella storia dell’umanità. Ma se oggi il rischio non è più quello della nascita di regimi autoritari, si pone comunque il problema del diffondersi, prevalentemente in ambiti socialmente marginali ed esposti al disagio, di risposte orientate alla ricerca di una purezza originaria che alimenta forme di estremismo e integralismo. Non solo religioso, ma anche sociale e politico. Sottovalutare queste spinte sarebbe sbagliato, così come sarebbe sbagliato non rendersi conto che la civiltà occidentale, e in particolare quella europea, sta vivendo una crisi che non è limitata all’economia e alla finanza, ma investe quei valori e quei principi che la democrazia stessa ha sempre cercato di proteggere. Per questo motivo la crisi investe anche la politica. Il rischio è di un progressivo distacco dai valori fondanti, il rinchiudersi in se stessi, rinunciando a integrarsi reciprocamente. La politica deve sottrarsi alla tentazione di occupare solo il presente e non svolgere più quella funzione di senso e di orientamento verso il futuro che gli è stato affidato dalla democrazia. Ed è questo l’altro grande rischio della crisi della nostra epoca: che la politica si ritiri dalla storia, intesa come un processo lineare di sviluppo, rifugiandosi in una curva del tempo all’interno della quale tentare il ritorno a una mitica età dell’oro.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 12 marzo

 

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