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Il recupero del ruolo dell’apprendistato

di Fabio Germani

Non molti giorni fa abbiamo scritto di come il lavoro qualificato sia più richiesto (nonché pagato) di qualsiasi altra mansione, il che spiega le ragioni per cui la condizione occupazionale e retributiva dei laureati resti migliore di quella dei diplomati di scuola secondaria superiore. I laureati occupati superano i diplomati di almeno 11 punti percentuali. Questo, tuttavia, non vuol dire affatto che i secondi non possano specializzarsi in determinati mestieri. Anzi, semmai è vero il contrario.
Mentre il governo è alle battute finali con le parti sociali (gli ultimi ostacoli vertono ancora sull’articolo 18) sono diverse le variabili su cui dovrebbero concentrarsi gli sforzi in seno alla riforma del mercato del lavoro. Che deve, per forza di cose, riguardare una parallela riforma degli ammortizzatori sociali e rilanciare l’occupazione soprattutto tra le categorie più penalizzate: le donne e i giovani. Tra le misure allo studio del governo compare anche la ristrutturazione delle tipologie contrattuali, in particolare quelle a termine che potranno costare di più al fine di scoraggiarle e di incentivare, piuttosto, l’apprendistato.
Il decreto legislativo 167/2011 disciplina tre ipotesi: l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale per gli under 25 (con la possibilità di conseguire un titolo di studio in ambiente di lavoro); l’apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere per i giovani tra i 18 e i 29 anni; l’apprendistato di alta formazione e ricerca per conseguire titoli di studio specialistici, universitari e post-universitari.
Ciò che è mancato finora, invece, è stata un’autentica alternanza scuola-lavoro, che (almeno in parte) può avere contribuito all’incremento della disoccupazione giovanile che ha raggiunto, stando alle ultime stime, il 31,1%. Se ne è parlato anche in occasione del convegno Progettare per modernizzare organizzato dall’Adapt il 15 marzo in ricordo di Marco Biagi (le cui commemorazioni, a dieci anni dalla sua morte, si sono tenute nella giornata di lunedì). “In Italia nelle scuole del primo ciclo – ha osservato a tale proposito Giuseppe Bertagna, professore di Pedagogia generale all’Università degli Studi di Bergamo – c’è l’umanistica, ma non c’è la ‘manistica’. Il lavoro è stato ridotto allo studio di pagine e di teorie e non si prende a cuore il tema dell’alternanza tra teoria e pratica. In questo modo non è possibile che nasca una sensibilità formativa ed etica del lavoro e della sua funzione sociale. Si rende necessaria l’alternanza tra inclusione ed esclusione, tra il fare e il pensare”.
In soldoni, è stato il suggerimento di Bertagna, potrebbe rivelarsi dirimente introdurre questo orientamento con una metodologia didattica che assuma una sistematicità a maggior ragione valida al giorno d’oggi, ma che non si riesce a valorizzare per le sue dimensioni ridotte (poiché interessa soprattutto gli istituti tecnici e professionali) e a causa della convinzione che una certa sensibilità al lavoro non possa essere favorita già a 15 anni.
Il recupero del ruolo dell’apprendistato, non solo come strumento che riduca la disoccupazione, ma soprattutto come strumento formativo, di crescita della persona umana, come strumento “anche psicologicamente interessante per rinnovare le pratiche dell’insegnamento e dell’apprendimento”. “Dietro il paradigma dell’osservazione e dell’accompagnamento – è stato dunque il ragionamento del professor Bertagna – ci sono una serie di comprensioni e di impliciti concettuali che servono alla formazione”. Vale a dire recuperare l’eventuale disadattamento scolastico e “garantire a tutti la gioia dell’apprendimento e accrescere la persona tramite l’eccellenza che può mettere in pratica e mostrare al prossimo”.

 

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