Ma quale futuro per il giornalismo? (2) | T-Mag | il magazine di Tecnè

Ma quale futuro per il giornalismo? (2)

di Fabio Ferri

(prosegue da qui) Futuro (Hic sunt leones)
Ora veniamo alle tecnologie. Per la maggior parte dei giornalisti sono un mero dovere aziendale, altri ne sono incuriositi, pochi ne capiscono la vera importanza e sono pronti a giocarci come dei bambini davanti al piccolo chimico. Ecco facciamo che parliamo a questi ultimi, e il resto della minestra (piena di verdure antiossidanti) era indirizzata alle prime due categorie.
Il futuro di internet si chiama mobile. Nel 2015 oltre la fine della carta ci sarà il sorpasso della navigazione web dallo schermo al telefonino. Un po’ com’è stato il passaggio dallo schermo tv a quello dei pc, ora tra smartphone e tablet i pixel si riducono ancora di più. E se la chiave del cambiamento per i pc è stata interattività e multitasking, quello dei mobile device sarà la geolocalizzazione e le applicazioni. In molti hanno scritto e detto che l’iPad, e la genia di tablet derivati, cambierà il mondo dell’informazione, e molte start up e redazioni hanno creato app ad hoc. Ma si dimentica che il successo dell’Apple si basa su due caratteristiche in sostanza: design accattivante ed ecosistema funzionale. Il design dell’informazione è in molti casi ignorato o sottostimato (anche nell’impaginazione di un’edizione cartacea). L’ecosistema invece si basa su iTunes. Idea con cui Jobs è riuscito a scardinare il fortino delle major discografiche e cinematografiche, arroccate contro la pirateria online e mummificate nella produzione di plastica più che di contenuti. Si incominciano a vendere singoli non album. E anche qui non è tutto oro. Addio ai concept album forse.

iNews
Una sfida, più che una proposta. Il futuro del giornalismo sarà forse fatto di edicole multimediali in cui consultare schermi touch screen, invece che sfogliare il classico giornale; si compreranno notizie singole a 30/40 centesimi l’una. Si potrà conoscere virtualmente l’autore di un articolo, e dialogare con lui. Avere applicazioni che seguano i miei gusti aggregando notizie a me congeniali prese da diversi produttori di informazione: con cui avrò sottoscritto un abbonamento che mi garantisca i pezzi di Facci da Libero e quelli di Caporale da Repubblica. Perché come per la musica più che determinati generi seguiamo delle personalità.
E la personalizzazione delle notizie sarà una chiave fondamentale di questo passaggio, permettendomi di dare fiducia a qualcuno più che ad un gruppo editoriale. Un tempo i giornali riportavano solo il nome del direttore quando scriveva il suo editoriale: per il resto era un coro di voci che esprimevano l’identità della Testata. Non credo che domani Il Giornale e Il Corriere della Sera forse saranno solo i luoghi dove scrivono le punte del giornalismo del momento: certo è che le firme avranno sempre un ruolo maggiore. Perché non avranno più bisogno di intermediari per arrivare al (loro) pubblico, potranno bypassarli attraverso i loro blog o i loro profili di TwInews [nuova app di Twitter che raccoglie e distribuisce solo i messaggi dei giornalisti ndr]. La narrazione sarà essenziale per veicolare le notizie, dall’ infotainment alla storytelling. Prima le storie poi i fatti e i dati. Serviranno sempre nuove competenze per far ciò: tornando alla fase preindustriale, in cui non c’era una netta separazione delle professionalità, ma bisognava saper fare un po’ di tutto. Propensione spesso ancora viva nelle piccole realtà editoriali e non solo. Design, infografiche, data journalism: queste le voci dei cv da riempire assieme a studi di statistica e linguaggi di programmazione conosciuti. I dilettanti avranno un ruolo ben preciso: faranno da hub verso i produttori certificati di storie e le varie nicchie di interessati, distribuiranno connettendo tra loro diversi aree di una rete sociale che ruota intorno ad uno specifico argomento. Automatizzazione di alcune news che daranno la possibilità ai giornalisti di spendere più tempo nella fase di ricerca o di scrittura degli approfondimenti a quelle news. Il rischio serio è di rimanere intrappolati all’interno di una bolla.

Bello, forse, ma chi lo paga?
Più che i quotidiani chi teme l’uso di blog e Twitter sono le agenzie stampa: che meglio di altri conoscono il valore di un’informazione e il vantaggio di essere i primi ad averla. Per poi rivenderla al resto della filiera delle news. Emblematico a tal proposito è stato il caso della Reuters contro Fabrizio Goria. Accorciare la filiera produttiva, dove possibile, quindi servirebbe a ridurre il costo della produzione delle notizie stesse. Questo potrebbe essere fatto con la partecipazione dei lettori. Come nel caso dell’app utilizzata da free press come Metro. Ciò inoltre coinvolgerebbe maggiormente gli utenti. Una maniera poi per mettere a profitto questa ritrovata sintonia con il proprio pubblico potrebbe essere la valorizzazione della pubblicità in base ai profili personali dei lettori, e in alcuni casi su base locale. La profilazione, come anche la partecipazione “diretta” alla produzione dei contesti d’uso delle notizie, è resa possibile grazie ai social media e alla loro struttura relazionale. In cui è possibile rintracciare una moltitudine di dati e informazioni più o meno personali. La vittoria del glocale (con il locale che torna in vantaggio) quindi potremmo avere notizie globali e pubblicità locale.

Proposta 3. Le edizioni locali sono quelle che hanno perso meno lettori nella crisi delle vendite, e in alcuni casi, tranne qualche eccezione, sono anche quelle che trascurano di più la loro presenza digitale. Se posso però sapere cosa sta succedendo dall’altra parte del mondo mi è difficile attraverso la rete venire a conoscenza spesso di quello che sta accadendo nel mio quartiere. Perché in parte la comunicazione dei social media ha corroso, amplificandole, le 4 chiacchiere al bar o il pettegolezzo sul pianerottolo. Dopotutto è anche vero che  «Uno scoiattolo morente nel tuo giardino potrebbe essere più vicino ai tuoi interessi, in questo momento, di quanto lo sia la gente che muore in Africa» by Mark Zuckerberg. Allora perché non puntare allo sviluppo di un giornalismo locale, che punti alle comunità come su internet si fa con le nicchie di interesse?

Mini format. Diversificazione da parte dei quotidiani che possono essere sempre più simili a dei centri media, quindi producendo diversi tipi di contenuti informativi. Si necessita di nuovi formati, oltre che di contenuti di valore. Format che si dovranno adattare alle esigenze di tempo, quindi di spazio, dei lettori. Ad esempio la realizzazione di instant e-book potrebbe essere un modo per approfondire un argomento di cui ci si è occupati nell’arco dell’ultimo mese. Le tecniche legate alla gamification potrebbero essere utilizzate per aumentare la partecipazione dei lettori, soprattutto i più giovani.
Per fare ciò serve quindi un nuovo patto con i lettori. In Italia le novità di cui si è parlato nel panorama giornalistico hanno riguardato Il Fatto e (ancora in sordina) Pubblico. Due quotidiani senza finanziamento pubblico che si reggono sull’autofinanziamento e soprattutto sull’abbonamento. Entrambi vengono dalla logica della personalizzazione del prodotto: l’ho visto in televisione, mi fido, compro in anticipo il suo nuovo giornale. Così è stato per Il Fatto così sarà forse per Pubblico. La fiducia è la moneta sonante, e in Rete la valuta vale doppio.

(continua)

 

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