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Crisi dell’eurozona: quale soluzione?

di Marco D'Egidio

La crisi dell’Eurozona ha ormai assunto caratteristiche e dimensioni tali che non è (più) possibile uscirne con le sole proprie forze. L’Italia è un Paese virtuoso, ha fatto i “compiti a casa”, ma tutto ciò non sembra avere effetto sullo spread, tornato a quota 500 punti base da inizio anno. Certo, l’incertezza del quadro politico, l’incombenza delle elezioni (questo impiccio) e Squinzi avranno fatto la loro parte, così come è giusto ricondurre la fatica nel vendere i nostri titoli di Stato alla caduta del Pil e soprattutto alla mancanza di un benché minimo ragionevole motivo perché tale caduta si interrompa. La realtà però è che ci sono, in Eurozona, mille altri fattori concomitanti, fuori dal nostro diretto controllo, a determinare l’andamento del nostro spread. Una mutualizzazione del debito, in un certo senso, c’è già: se la Spagna fallisce, molto probabilmente trascina nel baratro anche la virtuosa Italia. Il contagio è ormai in atto. Non c’è bisogno di coltivare sentimenti anti-tedeschi per riconoscere che alcune possibili soluzioni, tra cui una riforma che trasformi la Bce in prestatore di ultima istanza come la Federal Reserve americana, sono osteggiate da Berlino, sia pure per legittimi e rispettabili motivi interni (ad esempio la paura storica dell’inflazione). Che cosa si può fare, dunque, a livello nazionale, quanto meno per poter dire di avere fatto la propria parte nel tentativo di uscire da questo buco nero?
Con l’approvazione del fiscal compact qualche giorno fa in Parlamento, i margini di manovra accettabili sono molto stretti, tanto più che tassi d’interesse dei Btp al livello degli attuali rischiano di vanificare gli sforzi di risanamento dei conti pubblici. Due sono i (pesanti) vincoli che ci impone il Patto fiscale europeo: il pareggio di bilancio e la riduzione di un ventesimo l’anno del debito pubblico per la quota che eccede il 60% del Pil. In altri termini, dobbiamo più che dimezzare il rapporto debito/Pil in vent’anni. Possiamo decidere di farlo aumentando le tasse, come forse molti dei nostri presenti e futuri governanti staranno meditando. Ma non è una strada che conviene percorrere: siamo già i campioni mondiali nella disciplina e un ulteriore inasprimento della pressione fiscale sotterrerebbe la nostra economia, con l’annesso risultato di aumentare lo spread rendendo necessario reperire nuove risorse. Un cane che si morde la coda. Possiamo scegliere di tagliare la spesa pubblica a pressione fiscale sostanzialmente invariata, sempre nell’ipotesi che governo e Paese reggano l’impatto di una spending review di entità pari a circa quattro volte quella appena varata e che tutti i futuri governi di qui a vent’anni si leghino le mani. Questa strada, sebbene difficilissima, è da preferire alla prima, perché gli sprechi e le inefficienze della Pubblica Amministrazione sono tanti e molte risorse potrebbero venire non solo dal taglio delle spese correnti ma anche da ambiziosi piani di privatizzazione e cessione di asset pubblici. Ma i limiti vengono dalle invincibili, e non del tutto immotivate, resistenze che una revisione radicale delle prestazioni dello Stato provocherebbe nella società: i tagli alla spesa pubblica dovrebbero colpire anche servizi come istruzione, sanità e previdenza per avere una loro efficacia sulla riduzione del debito, e sarebbe davvero un miracolo sfrondare solo gli sprechi, riuscendo al contempo a comunicare di non aver per nulla intaccato, e anzi di aver migliorato, il livello dei servizi ai cittadini. La strada obbligata in periodo di pareggio di bilancio è quindi una sola: tagliare la spesa pubblica restituendo ai contribuenti quanto risparmiato sotto forma di riduzione delle tasse. Una simile misura avrebbe scarso effetto sull’alleggerimento del debito in termini assoluti, ma è sperabile che rimetta in moto gli spiriti vitali degli italiani, il lavoro, i consumi. Se il Pil ricominciasse a crescere, e il debito non aumentasse, il rapporto debito/Pil diminuirebbe nel modo più virtuoso e socialmente sostenibile, cioè per spinta del denominatore, cioè per spinta nostra. Nella migliore delle ipotesi, se l’Italia riuscisse a produrre in termini nominali il 2,5% in più all’anno, uno dei vincoli del Fiscal Compact, quello più impressionante, di fatto è come se non esistesse: non dovremmo infatti preoccuparci di ridurre lo stock di debito, dovremmo solo pensare a crescere, che è il nostro imperativo da almeno dieci anni. E non c’è al momento modo migliore e più veloce per tornare a crescere se non tagliare le tasse, che equivale a ridistribuire potere d’acquisto ai cittadini. Molte resistenze si solleverebbero comunque, perché ogni taglio ferisce, ma sarebbero forse di più le approvazioni. Per non parlare dei mercati, che saluterebbero favorevolmente questa decisione riacquistando fiducia e facendo calare lo spread (sempreché la situazione in Eurozona non precipiti per altri concomitanti fattori).
Paradossalmente, l’unica possibile uscita dall’attuale spirale negativa è quella che determina i minori benefici per le casse dello Stato: non un aumento della tasse, non una riduzione tout court della spesa pubblica, ma uno scambio fra meno spese e meno tasse per tornare a crescere. Nulla è garantito, la nostra salvezza continuerà a dipendere anche dalle decisioni prese nelle altre capitali europee e a Francoforte. Ma se dobbiamo provarci, forse conviene cominciare da qui.

 

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