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Sanità, occorre cambiare il sistema per evitare la deriva

di Matteo Romani

Diciamoci subito la verità, la vicenda del neonato deceduto al San Giovanni di Roma è solo l’ultimo drammatico episodio, in ordine di tempo, che getta discredito sul nostro sistema sanitario. Parlare di malasanità ormai, per fare contenti i vecchi cronisti, non fa notizia, perché troppi sono i casi di errori, malaffare, incapacità gestionale, con i quali devono fare i conti i cittadini che, loro malgrado, ogni giorno devono recarsi in una struttura ospedaliera.
Eppure la sanità italiana non è da buttare, anzi. Nonostante la parziale compartecipazione alla spesa tramite ticket, l’accesso alle cure è fondamentalmente garantito a tutta la popolazione, a differenza di quanto avviene in molti altri paesi. Ci sono eccellenze in diversi settori chiave della salute umana grazie alla qualità dei nostri medici e ricercatori. Senza dimenticare la grande professionalità e competenza della stragrande maggioranza del personale sanitario, medico e infermieristico, che ogni giorno è costretto ad operare in condizioni critiche, tra ridimensionamento del personale e tagli a budget e risorse. Quotidianamente migliaia di prestazioni vanno a buon fine, nell’indifferenza, o forse sarebbe più corretto dire, nell’ignoranza generale.
Ma allora come si spiega lo sfascio del nostro sistema sanitario? Partendo dal presupposto che l’errore umano e la voglia di truffare il sistema si annidano in ogni categoria ma che in ambito medico possono costare la vita, la sanità italiana sta implodendo su se stessa a causa del principiale meccanismo che ne determina il funzionamento: il rimborso delle prestazioni. Non è certo un mistero che a seconda della prestazioni erogate Asl e ospedali, strutture religiose e private accreditate, percepiscano un rimborso dalle regioni e dunque da tutti noi contribuenti. E’ un meccanismo perverso che ha spinto negli anni a “produrre” prestazioni in eccesso per accaparrarsi i fondi regionali, senza che i pazienti ne traessero un effettivo giovamento. In pratica è stata l’offerta e non la domanda a determinare il numero e la tipologia di cure, prescrizioni e analisi. Risultato le regioni sono sprofondate in deficit di bilancio spaventosi, acuiti da gestioni pessime di manager nominati dalla politica e raramente in grado di gestire strutture complesse come le Aziende Sanitarie. I tagli che ne sono conseguiti hanno ridotto il personale che oggi è costretto a operare sotto organico, con turni spesso massacranti e con attrezzature obsolete poiché non ci sono i fondi per sostituirle. Nel comunicato del Ministero della Salute diramato dopo la visita degli ispettori al San Giovanni di Roma, si fa riferimento a “presenza di incubatrici datate, senza possibilità di pesata e conseguente necessità di disconnessione continua degli infusori (la relazione riferisce di ripetute richieste alla Regione Lazio per questi dispositivi, l’ultima il 30 maggio 2011). Numero limitato del personale sanitario addetto”.
Se si fosse gestito meglio e sperperato meno, forse questo ed altri drammatici episodi si sarebbero potuti evitare. La logica del rientro dal debito che attanaglia la sanità non può calare dall’alto in maniera ragionieristica come una scure. Vanno coinvolte tutte le parti in causa, istituzioni, manager e personale per sviluppare un percorso condiviso che consenta di tagliare si gli sprechi, ma anche di innovare un settore che non può essere abbandonato a se stesso. Ma bisogna fare presto. Altrimenti rischiamo altre “non notizie” come quella del neonato deceduto al San Giovanni.

 

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