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Italia ed Europa con pochi giovani

di Carlo Buttaroni

Tra il 1850 e il 1950 la popolazione del pianeta è cresciuta di 1,3 miliardi d’individui. Nel 2050 si stima che la popolazione mondiale supererà i 9 miliardi, con un incremento di 6,6 miliardi rispetto a cento anni prima. La crescita della popolazione ha origine essenzialmente nell’aumento dell’attesa media di vita che, negli ultimi cento anni, è più che raddoppiata. Si vive più a lungo, ma in compenso nascono meno bambini (4,3 per donna negli anni settanta contro i 2,6 attuali). La conseguenza di questo processo demografico è il capovolgimento della piramide delle età, prima caratterizzata da un’ampia base costituita da giovani e che da qualche anno si sta riducendo velocemente, a vantaggio di un vertice anagrafico sempre più ampio.
Un fenomeno impetuoso e recente che sta invertendo il segno che aveva fin qui caratterizzato l’equilibrio tra nuove e vecchie generazioni. Nel 2045, per la prima volta nella storia dell’umanità, gli anziani (cioè le persone con più di sessant’anni) e i giovani (con meno di quindici) rappresenteranno la stessa quota della popolazione mondiale.
In Europa, il passaggio della staffetta tra giovani e anziani è avvenuto già all’inizio degli anni Novanta e, oggi, il fenomeno più rappresentativo è proprio il progressivo pensionamento della generazione nata negli anni del “boom demografico”, che garantì al sistema produttivo le risorse umane necessarie a sostenere la crescita economica e ai sistemi di welfare un ampio bacino di approvvigionamento finanziario. Oggi le nuove generazioni europee non sono sufficienti a sostituire quelle che escono dal mercato del lavoro per anzianità e il sistema presenta una crescente sproporzione, in termini percentuali, tra popolazione attiva e popolazione non attiva. Oltretutto, se da un lato si assiste a un notevole prolungamento della vita media e del periodo di permanenza degli anziani a carico del sistema di protezione sociale, dall’altro cresce anche il numero di anni che precedono l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Sta avvenendo il contrario, cioè, di ciò che servirebbe per tenere in equilibrio il sistema. Le cause principali del ritardo con cui i giovani entrano nel mondo del lavoro sono da rintracciare nell’elevato livello di competenza oggi richiesto e nella carenza di posti di lavoro. La conseguenza di questo stato di cose è un sistema sempre meno sostenibile dal punto di vista economico e meno stabile, nel momento in cui la base fiscale si riduce e contestualmente aumentano i costi determinati dall’aumento della popolazione anziana a carico del sistema stesso. Le entrate e la spesa pubblica, infatti, risentono inevitabilmente delle caratteristiche anagrafiche della popolazione. Le prime derivano principalmente dalla tassazione dei redditi di lavoro e, quindi, il periodo di massima contribuzione degli individui coincide con l’età lavorativa adulta; le punte massime della spesa pubblica si concentrano, invece, nelle due fasce estreme: la prima tra 0 e 20 anni e la seconda tra i 60 e gli 80 anni, con il secondo picco che supera abbondantemente il primo.
L’evoluzione demografica è stata finora in equilibrio, ma è una situazione destinata rapidamente a cambiare in peggio. Se, da un lato, le entrate sono destinate a ridursi in funzione del minor peso delle generazioni in grado di produrre reddito, la spesa pubblica per la previdenza e l’assistenza degli anziani è destinata a crescere in relazione all’aumento dei beneficiari del sistema pensionistico e socioassistenziale.
Se la curva demografica è quella attuale, la manodopera necessaria all’espansione del sistema produttivo dovrà essere cercata tra le risorse già presenti nella popolazione, attraverso l’incremento dei tassi di attività della popolazione in età lavorativa. Nei prossimi anni la mobilitazione della forza lavoro sarà un fattore strategico per l’espansione dell’apparato produttivo e per la tenuta del sistema stesso.
La questione dell’equilibrio finanziario del sistema sociale è sicuramente la sfida dell’Europa. Ma esiste anche un problema considerato, erroneamente, meno “attuale” rispetto alle ricadute economiche dell’invecchiamento della popolazione: il tema dell’accesso, dell’equità e delle pari opportunità. Un tema che riguarda in primo luogo gli immigrati, le donne, gli anziani e soprattutto i giovani. I flussi immigratori extracomunitari hanno, finora, in parte mitigato gli effetti dell’invecchiamento della popolazione europea, sostenendo la crescita demografica e l’offerta di lavoro di molti paesi con saldo naturale negativo come la Germania, l’Italia e la Grecia. Bisogna, però, tener conto che anche gli immigrati invecchiano e il flusso immigratorio compensativo può essere alimentato solo attivando processi integrativi reali che ne facilitino l’inserimento e la permanenza.
Un secondo problema di accesso e pari opportunità è quello che riguarda la divisione sociale del lavoro tra uomini e donne. L’aumento del numero di anziani bisognosi di cure, nei prossimi anni, farà aumentare la domanda di assistenza, ma la conseguente crescita della spesa pubblica porterà al trasferimento di parte del carico assistenziale dalle casse pubbliche alle tasche delle famiglie. Sulle donne graverà la maggior parte delle responsabilità del lavoro di cura verso gli anziani della famiglia, in aggiunta al lavoro domestico e alla cura dei figli da un lato e alla carriera professionale dall’altro. Ed ecco l’ennesima contraddizione: se la manodopera necessaria allo sviluppo economico del prossimo futuro dovrà derivare da una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro, questo carico di responsabilità, ancora così poco condiviso, rende difficilmente conciliabile il lavoro e la gestione delle problematiche familiari. Esiste, inoltre, un ulteriore problema di accesso e pari opportunità rappresentato dall’esclusione dal sistema produttivo e formativo della componente anziana della forza lavoro. I dati Eurostat dimostrano che in tutti i paesi dell’Unione europea il tasso di occupazione della popolazione anziana è tanto più alto quanto più elevato è il titolo di studio, ma tra le categorie che beneficiano dell’istruzione e della formazione i lavoratori anziani sono attualmente i meno favoriti. Il presupposto di base è che una risposta adeguata all’invecchiamento non debba limitarsi a considerare le persone anziane di oggi, ma debba tener conto di tutto il ciclo di vita e interessare i soggetti di tutte le età.
Infine i giovani. L’evidenza che continueranno a essere pochi è scritta nel basso tasso di fecondità. A questo si aggiungono il ritmo lento della transizione alla vita adulta e il ritardato ingresso nel mondo del lavoro. Un altro aspetto è la scarsa dinamicità sociale che caratterizza le nuove generazioni. Se la generazione dei genitori rappresenta il principale “provider” dei figli e, allo stesso tempo, il principale ammortizzatore sociale di cui possono beneficiare, è inevitabile che, nel futuro, tenderanno a riprodursi le disuguaglianze proprie delle generazioni più anziane. Questo perché la mobilità sociale tende a bloccarsi nel momento in cui le possibilità dei giovani sono collegate esclusivamente alle risorse, di tipo economico, intellettuale o sociale, che i genitori possono trasferire. Come si può intuire, in questa dinamica, l’invecchiamento politico è una diretta conseguenza. Non solo dal punto di vista anagrafico, ma anche delle politiche che dovrebbero accompagnare la crescita economica di tutta la società. Il rischio, dunque, è duplice: quello di un’ulteriore, progressiva perdita di rappresentanza politica dei giovani e l’affermarsi di élite autoreferenziali in tutti gli ambiti rilevanti della vita pubblica.
Per i giovani italiani, la condizione di svantaggio è ancora più evidente rispetto sia alle generazioni precedenti, sia ai coetanei degli altri paesi sviluppati: sono meno aiutati dal sistema di welfare pubblico, hanno salari d’ingresso più bassi e il sistema previdenziale è squilibrato e iniquo rispetto a quelli delle generazioni che sono uscite o stanno uscendo dal mercato del lavoro.
La crescita dell’aspettativa di vita è sì una conquista dell’umanità, ma bisogna intervenire per non farla diventare il capolinea del progresso, investendo sulle donne e sui giovani, sulla ricerca e sul lavoro. Occorre, cioè, costruire una nuova consapevolezza sociale per tornare a vedere il futuro come un territorio da conquistare anziché un luogo dove consumare le ultime risorse rimaste.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 6 agosto. Sfoglia l’indagine Tecnè in pdf

 

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