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Sono i giovani la luce in fondo al tunnel

C’è una locuzione molto in voga tra politici e giornalisti (Monti, ad esempio, l’ha utilizzata almeno in due occasioni, l’ultima al meeting di Rimini) per indicare l’uscita dalla crisi: “la luce in fondo al tunnel” che si inizia a vedere secondo il premier e, seppure più timidamente, il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera. Un ragionamento surrogato dalle analisi di Moody’s e Fitch, che un paio di giorni fa hanno promosso le iniziative del governo Monti e previsto la ripresa dell’economia italiana entro il 2013. Certo le agenzie di rating non sono oracoli, ma è indubbio che nelle ultime ore sia emerso un cauto ottimismo sulla situazione dell’eurozona nonostante le pressioni di Atene che chiede più tempo ai creditori e, tornando al caso italiano, la benzina che supera la soglia dei due euro al litro.
Eppure nella giornata di giovedì la riflessione sulla “luce in fondo al tunnel” ha preso una piega più interessante. Il punto l’ha messo il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, intervenendo a Radio Anch’io. Il ministro ha infatti annunciato un piano per i giovani. “Credo sia giunto il momento in cui occorre ritrovare la fiducia, che non vuole dire facile ottimismo e tanto meno ottimismo superficiale destinato a infrangersi. Vuol dire – ha spiegato Fornero – ritrovare una capacità di progettazione del futuro e avere controllo dei problemi pur gravi che ci sono. E avere fiducia nella capacità di risolverli. Questo coincide con un po’ più di prospettiva. Il nostro Paese per troppo tempo non ha fatto i conti con un dislivello tra la domanda complessiva e le risorse nel loro insieme, scaricando questo eccesso di domanda sulle generazioni più deboli”.
Su questo giornale abbiamo spesso sottolineato le difficoltà dei giovani ad emergere, a trovare un’occupazione stabile e il deficit di futuro che sono costretti a vivere. La disoccupazione giovanile (15-24 anni) ha raggiunto livelli record e il divario generazionale è oggi più marcato. Bastino pochi numeri, quelli contenuti nel Rapporto annuale 2012 dell’Istat. “Confrontando i giovani delle generazioni entrati nel mondo del lavoro entro i 25 anni, le opportunità di miglioramento della propria condizione sociale rispetto ai padri sono cresciute fino alle generazioni degli anni ‘50, si sono ridotte per le generazioni successive e i rischi di peggiorare sono aumentati. La probabilità dei figli della borghesia di permanere nella loro classe di origine è maggiore della probabilità di accesso da parte dei figli provenienti dalle altre classi. Sono molto rari gli spostamenti tra classi sociali se distanti. Solo l’8,5 per cento di chi ha un padre operaio riesce ad accedere a professioni apicali, quali dirigente, imprenditore o libero professionista”. Ciò è vero anche durante il percorso della formazione. “La classe sociale dei genitori – spiega a tale proposito l’Istat – continua a influenzare i percorsi formativi dei figli. Per l’università la selezione avviene già all’ingresso: della generazione nata negli anni ‘80, si è iscritto all’università il 61,9 per cento dei figli delle classi agiate, contro il 20,3 dei figli di operai. Per quanto riguarda le scuole superiori, sono ormai minime le differenze fra le classi sociali nei tassi di iscrizione, mentre il tasso di abbandono è molto più alto per gli studenti delle classi meno agiate (30 per cento dei figli di operai nati negli anni ‘80, contro il 6,7 per cento dei figli di dirigenti, imprenditori, liberi professionisti)”.
Esiste una questione giovanile in Italia, inutile negarlo. E l’unico modo per riuscire a scorgere “la luce in fondo al tunnel” è garantire alle giovani generazioni – il motore di una società in continua evoluzione – un futuro non certo (la certezza deve essere costruita anche individualmente), ma almeno dignitoso. Il nostro è un Paese che deve recuperare lungimiranza e smetterla di piangersi addosso per i ritardi accumulati.

F. G.

 

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