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Noi, loro: a Belfast qualcosa non cambia

di Mirko Spadoni

C’è qualcosa a Belfast che il tempo non riesce a scalfire: l’odio. E’ vero, la violenza tra cattolici e protestanti non è ai livelli degli anni settanta. In fin dei conti, trent’anni sono passati anche qui, in quella parte dell’Irlanda rimasta sotto il dominio britannico.
Ma Belfast continua a vivere, quotidianamente, lotte intestine. Una città divisa: cattolici da una parte e protestanti dall’altra. I recenti episodi di cronaca lo dimostrano: basta un corteo di una fazione per scatenare l’ira di quella opposta.
“Purtroppo bisogna riconoscere che 14 anni dopo la firma di quello storico accordo di pace, l’Irlanda del Nord resta un paese fortemente polarizzato – racconta a T-Mag Riccardo Michelucci, giornalista ed autore di Storia del conflitto anglo-irlandese – la popolazione unionista-protestante e quella cattolico-nazionalista dei quartieri più poveri vive ancora divisa in ghetti, ragiona secondo una logica del noi e del loro, e non si sono registrati significativi passi avanti sul piano della convivenza civile. Queste comunità non hanno sentito gli effetti del processo di pace perché di fatto per loro poco è cambiato dal 1998, anzi ognuno continua a pensare che l’altra parte abbia ottenuto vantaggi e benefici a loro discapito e crede di averci rimesso qualcosa con la pace”.
Nonostante le fazioni coinvolte siano ben delineate. Il conflitto nord-irlandese è tutto fuorché uno scontro religioso: “È stata la propaganda britannica a volerlo dipingerlo in questo modo, non solo negli ultimi 30 anni, ma – spiega Michelucci – fin da tempi ben più remoti e l’ha fatto per celare il proprio ruolo di potenza coloniale nel corso dei secoli”.
Un colonialismo “spietato e senza scrupoli che è sfociato, nell’ultima fase (quella che inizia intorno al 1969), in un’insurrezione anticoloniale che ha dato vita a una guerra a bassa intensità”.
In pratica, la lettura religiosa serve ed “è servita a far passare gli inglesi come i pacificatori, ma – sostiene Michelucci – è smentita dalla storia. Basti pensare, per esempio, che i principali leader indipendentisti non erano cattolici, ma protestanti”.
Gli anni settanta sono lontani, dicevamo. Quelli che un tempo erano considerati nemici della Corona britannica, come l’ex comandante dell’Ira e ormai vicepremier nordirlandese, Martin McGuinness, stringono le mani della regina Elisabetta II. Un gesto, fino a qualche tempo fa, impensabile. Ma che una volta avvenuto “non ha fatto avanzare di un passo il processo di pace” in quanto si è trattato solo di “una colossale operazione di marketing politico”.
Sterili, nell’ottica della distensione tra cattolici e protestanti nordirlandesi, anche le iniziative intraprese dai governi britannici che si sono succeduti in questi ultimi anni.
L’attuale premier David Cameron, ad esempio, “ha proseguito sul solco già segnato dal suo predecessore, Tony Blair, concedendo gesti ‘simbolici’ dal grande impatto mediatico ma dallo scarso effetto concreto”, come la pubblicazione, sotto l’attuale governo Cameron, del “rapporto Saville sulla strage di Derry del 1972, la cosiddetta ‘Bloody Sunday’”.
Con il rapporto Saville, Londra ha riconosciuto che “i civili ammazzati dai paracadutisti inglesi a Derry sono state vittime innocenti e che la strage è stata – come Cameron ha detto in Parlamento – “ingiustificata e ingiustificabile”. “Ma quello che è mancato e temo mancherà sempre sarà – sostiene Michelucci – l’individuazione e l’incriminazione dei colpevoli”.
Il conflitto nordirlandese non sembra destinato ad un’involuzione, appare improbabile infatti un ritorno “alla drammatica situazione di guerra che c’è stata fino a 15 anni fa”. Tuttavia, “il perdurante stallo politico e la ripetizione del ritornello secondo il quale ‘adesso è molto meglio di prima’ impedirà – prevede Michelucci – all’Irlanda del Nord di fare progressi verso una vera pacificazione. Che non significa semplicemente assenza di guerra, bensì – conclude – convivenza, diritti, giustizia, uguaglianza”.

 

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