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Pensare “piccolo” per la nostra industria

di Carlo Buttaroni

L’Italia ha bisogno dell’industria. E soprattutto ha bisogno di una politica industriale, senza la quale il mercato europeo rischia di diventare una minaccia, anziché un serbatoio di opportunità con i suoi 500 milioni di consumatori e 20 milioni di imprenditori. Una politica industriale che manca ormai da molti anni nel nostro Paese tanto che, in un quinquennio, il numero delle imprese è diminuito del 15% e si sono perse posizioni importanti dal punto di vista della competitività, nonostante la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto. Evidentemente, il deficit delle imprese non riguarda il mercato del lavoro strettamente inteso, ma soprattutto politiche in grado di sostenere e rilanciare l’industria, senza le quali è impensabile uscire dalla crisi. Perché il settore industriale, nel bene e nel male, resta il motore della nostra economia, tanto che un lavoratore su quattro è occupato nell’industria e una quota analoga di lavoratori è impegnata nei servizi destinate alle imprese del settore. Se si considera anche che circa l’80% delle attività di ricerca e sviluppo è promosso da imprese industriali, ecco che ci si rende conto di come l’industria rappresenti tuttora il punto chiave per la ripresa economica del nostro Paese.
È stata proprio la nostra industria, infatti, negli ultimi trent’anni, a contribuire, con la sua particolare evoluzione, a grandi cambiamenti dal punto di vista economico e sociale. La crisi della grande impresa di produzione di massa degli anni settanta, per esempio, è rimasta sostanzialmente indolore, grazie a un percorso che ha portato al progressivo passaggio di forza lavoro dalle grandi fabbriche alle piccole, e dai settori ad alta intensità di capitale a quelli ad alta intensità di specializzazione.
E’ stato proprio il sistema delle piccole e medie imprese, delle catene di subfornitura e dei distretti, ad avere ritmi di crescita tali, tra gli anni settanta e ottanta, da assorbire la manodopera proveniente dalle grandi imprese, alimentando una seconda ondata d’industrializzazione e completando così il processo di modernizzazione del paese. In più, lo slittamento delle dimensioni d’impresa verso il piccolo e la concentrazione dei settori di attività a favore dell’industria leggera, ha compensato le chiusure e il progressivo “dimagrimento” della grande industria, pubblica e privata.
Fino al manifestarsi della crisi di questi ultimi anni, il sistema industriale italiano – in particolare il mondo delle PMI – ha dato buona prova di sé. Non solo nei settori più tradizionali del “made in italy”, ma anche in quelli ad alto valore scientifico e tecnologico, come il farmaceutico e l’ingegneristico. Le onde anomale della crisi hanno colpito più duramente proprio le paratie delle PMI, non tanto perché le imprese sono singolarmente deboli, quanto per la fragilità degli argini che il sistema è stato in grado di offrire. Ciò ha comportato un rapido collasso della produzione, cui ha fatto seguito un momentaneo recupero e una seconda crisi, altrettanto acuta, aggravata dal crollo dei consumi interni e dalle scelte di politica fiscale che hanno fatto crescere la pressione sul settore.
Il sistema industriale del Paese non sembra in grado di ripartire – e di riprendere a competere nei nuovi mercati globali – senza cambiamenti strutturali nei modelli produttivi e nelle regole del gioco. Cambiamenti che chiamano in causa la politica nel momento in cui si tratta di progettare il futuro industriale del nostro Paese. E se ci si interroga sul da farsi, si scopre che l’esperienza dell’Italia non propone un modello compiuto, un modo durevole di organizzare e praticare l’economia reale nel nostro Paese. Come avviene, al contrario, in altri Paesi europei come la Francia o la Germania.
Certo è che l’Italia non può uscire dalla crisi senza rilanciare il proprio settore industriale. Un rilancio che deve riguardare soprattutto le Pmi che rappresentano il cuore pulsante del sistema. E, di conseguenza, non può uscire dalla crisi senza quelle politiche in grado di stimolarne la crescita e le necessarie trasformazioni. Cosa fare?
Occorre una visione reale del tessuto industriale del nostro Paese, composto per il 98% da imprese con meno di 50 dipendenti. E avere la consapevolezza della necessità di rimettere l’industria italiana al centro dei processi di crescita. Occorre farlo applicando coerentemente il principio del “pensare prima in piccolo”, facendo leva su iniziative a sostegno delle Pmi come, ad esempio, l’accesso ai mercati emergenti in settori chiave come l’ambiente e le biotecnologie, l’efficienza energetica e il riuso, stimolando la cooperazione tra imprese e l’internazionalizzazione.
Occorrono interventi strutturali, perché la competitività delle imprese dipende dalla qualità dei prodotti ma anche dall’efficienza dei servizi, dalle infrastrutture nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni. E’ necessario eliminare le strozzature nelle normative, migliorare i collegamenti, potenziare le reti energetiche intelligenti, agevolare l’integrazione delle energie rinnovabili, garantire un mercato interno pienamente funzionante.
La modernizzazione della base industriale e dell’infrastruttura su cui essa si poggia, richiede importanti iniezioni di capitale per investimenti produttivi. E anche in questo campo, considerate le politiche restrittive che riguardano la spesa pubblica, è necessario attuare iniziative a tutti i livelli istituzionali che favoriscano gli investimenti dei mercati finanziari, compresi quelli esteri, nell’economia reale, in particolare per le imprese in fase di avviamento e di organizzazione delle attività di ricerca, sviluppo e innovazione. Ed è proprio nell’accesso ai finanziamenti che le nostre imprese, in modo particolare le Pmi, scontano un ritardo strutturale rispetto a quelle di altri Paesi avanzati.
Per poter far fronte alle sfide poste dalla concorrenza a livello europeo e mondiale, è indispensabile perseguire l’eccellenza nell’innovazione, con politiche che favoriscano una commercializzazione veloce dei beni e dei servizi perché le imprese italiane che innovano arrivino per prime sui mercati. Anche se i livelli di disoccupazione, soprattutto giovanili, sono molto elevati e in preoccupante crescita, l’industria ha spesso difficoltà a trovare le competenze necessarie a colmare le lacune nelle professionalità ad alto profilo specialistico. È, quindi, indispensabile uno stretto coordinamento tra autorità nazionali, regionali, locali nel campo della formazione, far crescere il numero e la qualità dei laureati in scienze, tecnologie, ingegneria e matematica, nonché incrementare il numero dei lavoratori qualificati, così da soddisfare le esigenze di settori in rapida crescita (ambientale ed energetico su tutti).
Un aspetto strategico, da affrontare senza indugi, riguarda proprio lo sviluppo di punti forti per quanto concerne la ricerca nelle tecnologie emergenti. Tecnologie abilitanti d’importanza strategica, quali la biotecnologia industriale, le nanotecnologie, i materiali avanzati, la fotonica, la micro e la nanoelettronica. L’Italia ha le competenze e le potenzialità per affermarsi in questi campi, ma occorre incubare questa vocazione con programmi mirati, con un migliore accesso ai finanziamenti e un maggiore sostegno ai progetti pilota.
Il management delle aziende e i rappresentanti dei lavoratori sono i soggetti cui spetta, in prima battuta, il compito di concordare strategie di riorganizzazione funzionale a livello di azienda che, però, hanno bisogno di essere accompagnate da politiche di contesto, che evitino l’inasprimento della conflittualità sociale e promuovano lo sviluppo di nuove competenze e la creazione di posti di lavoro. Così si possono evitare licenziamenti massicci, il declino d’intere aree del Paese e la sempre più diffusa delocalizzazione, facilitando, al contrario, la riconversione industriale e professionale.
Anche una nuova consapevolezza della responsabilità sociale delle imprese può contribuire alla concorrenzialità e alla sostenibilità dell’industria italiana. Motore dell’innovazione e dei cambiamenti è, infatti, proprio l’etica, intesa nel suo significato originario, cioè éthos, carattere, comportamento, consuetudine. Ed essa alimenta la fiducia. La crisi ha dimostrato che occorre un nuovo approccio per garantire un equilibrio tra la massimizzazione dei profitti nel breve termine e la creazione di un valore sostenibile nel lungo periodo. Solo attraverso un governo dello sviluppo, le imprese possono farsi carico del contributo allo sviluppo sostenibile e alla creazione di posti di lavoro.
Politica industriale, politica degli investimenti e politica energetica: sono questi gli ingredienti fondamentali, anche se non gli unici, per portare l’Italia fuori dalle acque basse della crisi. Tre ingredienti che hanno come denominatore comune la politica. Una politica che decide e governa lo sviluppo. Ciò che manca da troppo tempo al nostro Paese.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità dell’8 ottobre. Sfoglia l’indagine Tecnè in Pdf.

 

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