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Commercio equo e centralità del lavoro

Intervista a Massimo Renno, presidente dell’Associazione Botteghe del Mondo
di Claudia Carmenati

Quando si parla con Massimo Renno, neo nominato presidente dell’Associazione Botteghe del Mondo, l’associazione di categoria che riunisce 70 botteghe da nord a sud che progettano e vendono prodotti del commercio equo e solidale, si può iniziare a parlare del ruolo della speculazione finanziaria nella crisi mondiale e finire ad invidiare la conoscenza lenta e silenziosa di un maestro d’arte veneto. Parlare con Massimo sa di saggio, ispirato e incoraggiante. Rare qualità in questi tempi bui di speranza e svuotati di appartenenza.
Ha senso parlare di commercio equo in tempi di crisi sistemica? E penso a quanto la fragilità del nostro benessere stia anestetizzando il senso di solidarietà collettiva. “Paghiamo al Nord – spiega Renno – dei modelli di crescita e di sviluppo insostenibili. Il commercio equo potrebbe trasferire, proprio in un momento di crisi dell’economia tradizionale, alcune buone pratiche che nel nostro mondo sono la regola: la trasparenza nella formazione del prezzo, la qualità del prodotto. Il commercio equo è nato come opportunità di lavoro nei paesi che faticavano a crescere, oggi potrebbe essere un modello da esportare anche in Occidente. Noi puntiamo sul lavoro, crediamo nella centralità del lavoro, in opposizione alla logica del patrimonio”. Il valore socializzante del lavoro, al sud come al nord, l’economia reale in antitesi alla finanza volatile e precaria che ha reso tossica l’economia: “Infine il lavoro come principio educativo, ci tengo a sottolinearlo, è da esportare. Certo i numeri del commercio equo sono esigui, i nostri limiti strutturali, però alcune realtà marginalizzate hanno già adottato i principi dell’economia solidale, con successo”.

A maggio dell’anno scorso è stata finalmente depositata la Proposta di legge nazionale che andrà a regolamentare anche in Italia il Commercio equo e solidale. Nasce dopo un percorso tortuoso, d’altronde il commercio equo è quanto di più distante dall’antipolitica. Se per antipolitica si intende disaffezione al dibattito, qui ogni proposta è discussa e decisa insieme, per approdare a questo disegno di legge ci sono voluti anni e nonostante questo si può ancora migliorare.
Siamo davanti ad riconoscimento ufficiale del lavoro fin qui svolto o c’è il rischio di una burocratizzazione della filosofia? “Questa legge è un po’ tardiva – conferma Massimo Renno, che da vent’anni fa commercio equo -, ma è un riconoscimento importante, che legittima quello che un consumatore critico già sa. La certificazione politica sarà senz’altro utile alla promozione dei valori”. La legge propone l’iscrizione ad un albo di commercio equo la cui approvazione passa attraverso una commissione ministeriale e impone una serie di paletti per rientrare nella categoria. “Potrebbe ridurre la portata ideale ad un sistema formale. Ci saranno piccole realtà che faticheranno ad adeguarsi. Avrei pensato a modalità più inclusive, ma è un esercizio non semplicissimo. Ci sono realtà molto piccole, che lavorano al confine tra cooperazione e sociale, o non hanno un’adeguata natura giuridica, ne rimarrebbero fuori”.

Facciamo filò? Che in dialetto veneto vuol dire, sedersi insieme, incontrarsi a fine giornata davanti al fuoco, mentre qualcuno racconta qualcuno lavora. Ha una dimensione fortemente locale la cooperativa “Il filò”, nasce nel 1989 come cooperativa sociale con un laboratorio di pelletteria artigiana nella terraferma veneziana, il progetto pedagogico e lavorativo coinvolge giovani che si trovano in momentanea situazione di disagio sociale verso progetti di autonomia lavorativa e riscatto sociale. “Se ieri chi aderiva al progetto era segnalato dai servizi sociali, aveva una bassa scolarizzazione e situazioni familiari al limite, oggi il profilo sta cambiando. Ci sono giovani, già marginalizzati dal mondo del lavoro, nonostante abbiano gli strumenti culturali hanno tutti gli elementi per l’esclusione”. I Neet, per dirla con un linguaggio giornalistico. Quella fascia della popolazione che, nonostante l’età, è in deficit di futuro. E come spesso accade, siamo tornati da dove siamo partiti: per questo ha senso parlare di commercio equo oggi più che mai, perché il riscatto sociale attraverso il lavoro, è una cura per una società che ha smarrito un’intera generazione.

 

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