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Da “bamboccioni” a “choosy”: se la verità fosse nel mezzo?

di Fabio Germani

Bamboccioni non va bene, sfigati men che meno, allora è il caso di provarci con un termine che sia international e adatto al mondo giovanile, ma che al contempo racchiuda il consueto monito professorale. “Non bisogna mai essere troppo ‘choosy’, meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro e non aspettare il posto ideale”, suggerisce ad un convegno dell’Assolombarda la ministro Fornero con scarsa fortuna. Che è il risultato quello che conta: polemiche a go go.
Choosy, come a dire – per farla rapida alla stregua dei giornali con Google translate – “schizzinosi”. In altre parole ancora: cogliere la palla al balzo una volta terminati gli studi (diploma o laurea), fare il proprio ingresso nel mondo del lavoro e vedere poi come la va.
A leggere i dati sulla disoccupazione giovanile (che non contemplano esclusivamente chi ha portato a compimento gli anni di formazione) si potrebbe arrivare a credere che tutte le ragioni siano dalla parte di Elsa Fornero. In effetti, il suo, è stato il tipico esempio di espressione che cela grosse verità da un lato e parziale visione dall’altro. Il tasso di disoccupazione, in Italia, è cresciuto nel suo insieme (superando il 10%), mentre la fetta di popolazione attiva che comprende i 15-24enni senza un lavoro è aumentata ulteriormente oltrepassando (e di molto) la soglia psicologica del 30%. Ciò è dipeso dai contratti atipici – i tecnici al governo lo sanno bene, tant’è che hanno di recente varato una riforma del mercato del lavoro volta a introdurre determinati correttivi – di cui usufruiscono specialmente i più giovani. Lo sviluppo, se vogliamo scorretto, di tale procedura non ha permesso loro di variare tra diverse mansioni acquisendo così sempre maggiori competenze, bensì ha provocato un’alternanza talvolta prolungata di periodi di occupazione ad altri di nullafacenza in cui la ricerca di un nuovo impiego è piuttosto equivalso ad un buco nell’acqua (non a caso risultano in aumento anche i neet, ovvero coloro che né studiano né lavorano). Colpa di un mercato pressoché ingessato – nonostante le 46 tipologie contrattuali risalenti a prima della riforma i cui effetti potremo giudicarli soltanto in futuro –, la Fornero può rivendicare le proprie ragioni laddove concentra su di sé l’assoluta bontà del suo intervento per cui il mercato del lavoro deve essere flessibile e dinamico in una prospettiva di crescita.
Peccato che esistano numeri che consiglierebbero un diverso approccio al tema. La disoccupazione tra i laureati triennali è passata dal 16% del 2009 al 19% del 2010. Peggio va ai laureati con specialistica: quelli senza lavoro si attestano al 20% (dati AlmaLaurea). Le cifre stanno a significare l’evidente scollamento tra mondo accademico e mondo del lavoro che non provoca un senso di abnegazione al cospetto di un impiego che, d’accordo, non sarà il lavoro dei sogni, ma neppure niente che gli si avvicini, sobillando perciò un sentimento di frustrazione verso qualcosa di totalmente avverso ai sacrifici compiuti in precedenza. Nel nostro Paese si tende a conseguire la laurea con un certo ritardo e il lavoro, spesso, non è di qualità. Il paradosso, quindi, è che i posti vacanti nel frattempo diminuiscono, la domanda non è tanto superiore rispetto all’offerta poiché mancano strutture che sappiano coniugarle, chi è pronto a fare il proprio ingresso nel mondo del lavoro non è ritenuto subito all’altezza, le tutele sono pari a zero. Ecco perché c’è un po’ di vero sia nelle riflessioni di Elsa Fornero sia in quelle di coloro che l’hanno criticata.

 

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