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Il lavoro dopo il percorso di studi

di Fabio Germani

studenti_universitàTra le molteplici cause della crisi economica, che racchiude incertezze e paure oltre che difficoltà oggettive, c’è anche l’inversione di marcia rispetto ad alcuni anni fa quando l’iscrizione ad una università rappresentava il normale proseguimento del percorso di studi intrapreso. La disoccupazione giovanile (che ha raggiunto vette mai registrate, fin sopra il 40%) e comunque, più in generale, gli indicatori economici di questi tempi poco gratificanti, offrono a loro modo uno spunto di riflessione per le famiglie, impegnate come sono ad individuare quale possa essere lo sbocco ideale per i propri figli. Che storicamente – tanto quelli di ieri quanto quelli di oggi – sono sempre stati un po’ restii al prolungamento degli studi (almeno nel paragone con gli altri Paesi Ocse). Ma se nel recente passato gli atenei italiani avevano visto incrementare il numero delle immatricolazioni, nell’ultimo periodo, appunto, il trend è cambiato. Il tasso di passaggio – vale a dire il rapporto tra immatricolati all’università e diplomati di scuola secondaria superiore – è sceso al 58,2% nell’anno accademico 2011/2012 dal 73% del 2003/2004, anno in cui prese il via la riforma dei cicli accademici. In compenso, nel 2011, coloro che hanno ottenuto la laurea sono aumentati del 3,4%. Ad ogni modo i dati contenuti nell’Annuario statistico dell’Istat (presentato allo scadere del 2013) confermano più di una tendenza tipica del nostro Paese: le donne sono più propense alla conclusione degli studi rispetto ai colleghi maschi, ci si iscrive soprattutto al Nord (ma la differenza con le immatricolazioni al Sud è meno rilevante di quanto si pensi) e trovare un impiego subito dopo la laurea è più proibitivo per i giovani residenti nel Mezzogiorno. Quest’ultimo, se vogliamo, è l’aspetto cruciale dell’intera questione. Perché non c’è riforma del mercato del lavoro all’altezza se prima non si tiene conto dei mutamenti sociali nella transizione dal mondo accademico o dell’istruzione a quello “degli adulti”. E al momento la situazione è la seguente: la crisi occupazionale coinvolge allo stesso modo diplomati e laureati. I rapporti percentuali, tuttavia, cambiano con il trascorrere degli anni. Il tasso di disoccupazione tra i giovani di età compresa tra i 25 e i 29 anni è più alto, pari al 19%, per la seconda tipologia, mentre per quanti interrompono gli studi al conseguimento del diploma la quota si arresta, si fa per dire, al 16,3%. Alcuni anni più tardi, invece, i ruoli subiscono una variazione e alla lunga la laurea ripaga gli studenti degli sforzi sostenuti. A circa quattro anni dal conseguimento del titolo – si legge nell’Annuario statistico dell’Istat –, nel 2011 lavorava il 69,4 per cento di chi ha conseguito una laurea a ciclo unico, il 69,3 per cento di chi ha frequentato corsi triennali e l’82,1 per cento dei “dottori” in corsi specialistici biennali (altre informazioni da non sottovalutare). Così come non sono da sottovalutare i percorsi più appropriati, stando alle richieste attuali. I maggiori livelli di occupazione, infatti, si rilevano nei corsi inerenti le professioni sanitarie infermieristiche e ostetriche (oltre il 90 per cento), mentre minori opportunità (circa il 45%) comprendono i settori geo-biologico e giuridico. Per chi ha conseguito una laurea specialistica biennale, i livelli più alti di occupazione si hanno negli ambiti difesa e sicurezza, medico, ingegneria ed economico-statistico. Il gruppo geo-biologico presenta sempre una evidente criticità, con appena il 55 per cento degli occupati.
Sono numeri importanti, se non fondamentali, per l’individuazione di una strategia che contempli investimenti mirati nei settori delle nuove tecnologie, della ricerca e dell’innovazione. Qualsiasi riforma del mercato del lavoro necessita – al di là di nuove e più flessibili tipologie contrattuali (senza dimenticare un’adeguata copertura sociale per chi il lavoro lo perde) – di una struttura portante (sostegno alle imprese, formazione e istruzione) che la veicoli verso il traguardo, altrimenti velleitario, di una migliore occupabilità.

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