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Un’Italia con poco appeal

di Fabio Germani

competitività_innovazioneCultura ed economia vanno di pari passo in Italia, soprattutto per quanto riguarda le percezioni che gli altri hanno di noi. È l’immagine ciò che conta e nel primo caso, in una classifica di 55 Paesi, ci collochiamo al 34esimo posto per attrattività mentre i nostri principali partner europei (Gran Bretagna, Germania, Francia e Spagna anche) ci precedono. Per farla breve, all’estero non veniamo considerati, per così dire, una meta suggestiva – molto meno che in passato, diciamo – per storia, lingua e influenza. Le considerazioni sono dell’Istituto Europa Asia (Iea) secondo cui la principale pecca dell’Italia è l’incapacità di promuovere le proprie eccellenze (che pure ci sono) artistiche e valoriali.
Tutto questo, inoltre, fa il paio con il secondo caso – quello economico – laddove l’Italia ha perso finanche attrattività di investimento. Di capitali esteri ne girano pochi nel nostro Paese e le motivazioni vanno ricercate (soprattutto) nelle solite lacune: eccessiva burocrazia (diritto, tasse, procedure per le autorizzazioni) da un lato, alto tasso di corruzione dall’altro. Il governo ha tentato di dare una sterzata con il piano Destinazione Italia, anche perché le classifiche mondiali ci vedono molto indietro al riguardo (quando nuove attività permetterebbero all’intero ciclo produttivo di tornare a crescere oltre che recuperare appeal e competitività).
Ad ogni modo la situazione viene fotografata dall’Istat all’interno dell’Annuario statistico. “Nel 2010 – si apprende – le imprese a controllo estero residenti in Italia erano 13.741, impiegavano quasi 1,2 milioni di addetti, realizzando un fatturato di 468 miliardi di euro e un valore aggiunto di 93,5 miliardi di euro. Queste imprese – prosegue l’Istat – contribuiscono ai principali aggregati economici nazionali dell’industria e dei servizi con il 6,8 per cento degli addetti, il 16,1 per cento del fatturato, il 13,1 per cento del valore aggiunto”. Aspetto da non trascurare è l’apporto del capitale estero, che è “rilevante per la spesa delle imprese per ricerca e sviluppo (24,4 per cento) e le esportazioni e importazioni nazionali di merci, pari rispettivamente al 24,6 e al 44,3 per cento”.
Nello stesso anno, poi, “le imprese a controllo nazionale residenti all’estero erano 22.081, impiegavano oltre 1,6 milioni di addetti, realizzando un fatturato di circa 435 miliardi di euro”. “Il grado di internazionalizzazione del sistema produttivo italiano – viene ulteriormente osservato – può essere valutato sulla base dell’incidenza delle attività realizzate all’estero rispetto al complesso di quelle svolte in Italia. Ad esempio, le attività manifatturiere realizzano all’estero un fatturato pari al 16,3 per cento di quello conseguito in Italia, mentre in termini di addetti la percentuale sale al 18,7 per cento. Le controllate italiane all’estero presentano una dimensione media molto superiore alle imprese a controllo nazionale residenti in Italia sia nell’industria (109,9 addetti) sia nei servizi (50,2). Queste caratteristiche dimensionali risultano simili alle imprese a controllo estero che operano in Italia”.
Non è troppo un caso, insomma, se Achille Colombo Clerici, presidente dell’Istituto Europa Asia, ha notato come siano le esportazioni (“l’unico segno positivo della nostra economia”) a contribuire un minimo alla conoscenza del nostro Paese all’estero e non viceversa. “Esse – è l’amara conclusione – non godono certamente dell’effetto-traino del sistema Italia”.

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