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Tutti i fardelli delle imprese italiane

di Giampiero Francesca

lavoro_imprese-1024x683Fare impresa è un impegno arduo, in Italia. Rimanere competitivi lo è forse ancora di più. Ma da cosa dipende questa difficoltà ad adattarsi al mercato? Quali sono le principali differenze con le imprese estere in diretta concorrenza? Evasione, pressione fiscale e normativa complessa, sono, secondo l’attenta analisi realizzata da Alessandro Fontana per il centro studi di Confindustria, le cause prime della scarsa competitività delle nostre aziende. Basterebbe confrontare il dato dell’incidenza del gettito impositivo e contributivo sul PIL per le nostre aziende con quello dei principali partner europei per rendersi conto del gap che ci divide dagli altri grandi paesi. Nel 2011 la tassazione dei redditi d’impresa in Italia ha toccato il 2,8% del PIL, al di sopra sia della media dell’Eurozona (2,5%), che di nazioni come la Germania (2,6%) e la Francia (2,3%). Cifre che diventano ancor più significative se si considera l’aliquota implicita, data dal rapporto tra il gettito fiscale e la relativa base imponibile, pari, nel 2011, al 24,8% sul PIL, notevolmente superiore alla media europea (Eurozona 20,8%). Nell’analisi della pressione fiscale per le imprese del nostro paese bisogna inoltre sempre considerare che il gettito fiscale comprende, oltre all’IRES (Imposta sul reddito delle società), anche l’IRAP (Imposta regionale sulle attività produttive), toccando così livelli sempre più alti rispetto a quelli dei nostri competitor. Il quadro non migliora se a questi si aggiunge anche il livello dell’imposizione sul lavoro. Dalla metà degli anni ’90 infatti l’aliquota implicita relativa alla tassazione sul lavoro, in Italia, è costantemente aumentata, creando una vera voragine nei confronti dei principali partner europei. Se nel 1995 il nostro paese poteva dirsi sostanzialmente in linea con la media europea oggi il divario che ci separa da livello dell’eurozona è di quasi 5 punti percentuali (Aliquota implicita sul lavoro in Italia pari al 42,3%, media dell’eruozona 37,7%). Una distanza in termini di costo del lavoro che produce così ulteriori effetti negativi sulla competitività delle nostre imprese.
Imprese che devono inoltre fare i conti con gli alti elevati di imposizione dei fattori produttivi, su tutti dell’energia. E’ infatti più che evidente, che, se una tonnellata di petrolio costa, in media, in Italia, 73,7 euro in più rispetto agli altri paesi europei, la posizione delle nostre aziende ne risulterà ancora una volta indebolita. Tirando le somme di questo quadro dalle tinte fosche è possibile tracciare un profilo del livello della tassazione tra paesi quantificando il total tax rate (l’ammontare complessivo delle imposte pagate) di un’impresa tipo. L’impresa-tipo considerata è una società a responsabilità limitata, di proprietà di 5 soci, tutti del paese di residenza dell’impresa, con 60 dipendenti, operante nel settore dell’industria o del commercio, nella città con il PIL più elevato. Il total tax rate comprende le tutte imposte, locali e statali, tenendo conto di deduzioni e detrazioni e dei diversi contributi sociali versati. Viste le premesse non sorprende che l’aliquota effettiva complessiva per un’impresa italiana tocchi, nel 2012, il 65,8% dei profitti. Un valore appena superiore al livello francese (pari al 64,7%) ma enormemente distante da tutti gli altri competitor mondiali (Spagna 58,6%, Germania 49,4%, Stati Uniti 46,3%, Regno Unito 34 %). Da cosa deriva questa così marcata differenza? Il secondo punto preso in analisi da Alessandro Fontana è, in parte, proprio alla base di questo incolmabile gap; l’evasione fiscale. Secondo le stime elaborate da Friedrich Shneider, nel 2012, l’economia sommersa, in Italia, era pari al 21,6% del PIL, triste primato europeo per il nostro paese. Applicando meccanicamente la pressione fiscale effettiva alla quota di PIL sommerso il gettito fiscale aumenterebbe di 190 miliardi (12,1% del PIL). In un’ipotesi, del tutto teorica ed utopica, di eliminazione totale dell’evasione si avrebbe così una riduzione media delle aliquote di 15,9%. E’ dunque sufficiente questo dato per capire come la lotta al sommerso, da sempre, almeno nelle intenzioni, baluardo di ogni governo, necessiti di nuovi ed incisivi impulsi. Il nosto sistema imprenditoriale non può infatti reggere il confronto con i principali partner europei e mondiali se gravato da un peso tanto sfiancante. Una zavorra ulteriormente appesantita da una burocrazia complessa e farraginosa, piena di ostacoli e cavilli, perennemente soggetta a modifiche, spesso anche retroattive. Un’interessante statistica a riguardo è il rapporto Doing business, pubblicato dalla Banca Mondiale, per cogliere la complessità degli adempimenti fiscali. Questo report fa riferimento a due indicatori, il numero di pagamenti e i tempi necessari per assolvere gli obblighi fiscali e contributivi, che restituiscono un quadro desolante del nostro paese. Per essere infatti in regola con tutti gli adempimenti un’azienda italiana deve dedicare ben 269 ore annue per preparare i documenti necessari ed eseguire materialmente i pagamenti delle imposte sul reddito d’impresa. Una vera enormità se paragonata ai temi necessari negli altri paesi europei che scendono fino a 110 ore nel Regno Unito o a 130 in Francia.

 

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