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Cala la fiducia. Anche nel prossimo

Il pericolo è che tutto ciò si traduca in una chiusura privatistica al piccolo gruppo di riferimento
di Carlo Buttaroni

personeNon tutti sentiamo il prossimo allo stesso modo. Alcuni di noi sono più empatici, si lasciano coinvolgere e sono più propensi a fidarsi. Altri sono più distanti, meno sensibili ai sentimenti a altrui e diffidenti nei confronti del prossimo. La fiducia è un sentire che risponde agli stimoli ambientali, all’esperienza e all’educazione di ciascuno. Il “test del portafoglio perso” non è soltanto una sceneggiatura da “candid camera”. E’ un indicatore che riflette atteggiamenti e riflessi sociali profondi. Il grado di fiducia che poniamo nel fatto che qualcuno ci restituisca un oggetto che abbiamo perso, misura il nostro grado di apertura verso il prossimo e la capacità di attendersi buone pratiche sociali. Nell’ultimo anno, il sentimento di fiducia verso gli altri è diminuito sensibilmente, in particolare quando il prossimo è uno sconosciuto. Al primo posto della scala di fiducia c’è un rappresentante delle forze dell’ordine (81%). La diminuzione rispetto all’anno precedente è minima (-0,5%) ma è una fiducia “spersonalizzata”, orientata verso un’istituzione più che verso la capacità dell’individuo di rispondere positivamente a una chiamata della propria coscienza. Al secondo posto il vicino di casa (68%, in diminuzione dell’1,7%), con il quale la relazione di reciprocità rende più facile l’instaurarsi di pratiche positive. All’ultimo posto troviamo il perfetto sconosciuto, verso il quale la diffidenza è ampiamente prevalente e che assai pochi (11%) ritengono capace di un gesto come quello di restituire il portafoglio al legittimo proprietario.
La tendenza a circoscrivere uno spazio sempre più ristretto, dove i legami tra le persone sono alimentati da atteggiamenti positivi mentre al di fuori di quello spazio prevalgono diffidenza e indifferenza, è un fenomeno che negli ultimi anni è cresciuto notevolmente, parallelamente al crescere del livello di complessità della società. Ad alimentare questo fenomeno c’è la crisi economica che rende il mondo esterno più ostile, disegna traiettorie sociali minacciose e rende precaria l’esistenza degli individui. Se fino a qualche decennio fa la “stabilità sociale” rappresentava l’architrave delle società occidentali, la crisi ha inaugurato il tempo della precarietà e dell’incertezza che rendono il futuro opaco. Un futuro sul quale pochi, anzi pochissimi, oggi se la sentono di investire.
Da qui la valorizzazione del qui e ora a scapito della pianificazione futura, a causa di attese non rosee e di fronte all’impossibilità di costruire condizioni economiche stabili e rassicuranti, almeno nel medio periodo. È il cosiddetto presentismo, cioè la tendenza a orientare le proprie scelte e le azioni in un’ottica temporale che comprende e considera solo il presente, fino al punto di includere in ogni decisione cruciale l’intrinseca possibilità di mutarla al cambiare delle condizioni in cui è stata presa.
Per sua natura, l’uomo attinge all’esperienza e alla saggezza di quanti l’hanno preceduto con la consapevolezza di essere parte di un disegno più ampio, di situarsi in una storia che affonda le sue radici nelle generazioni trascorse e si proietta idealmente nel futuro. Questa vocazione è alla base della cultura politica e si declina nella capacità propriamente umana di fare storia, Una capacità insolubile, però, con la tendenza, sempre più diffusa, a vivere esclusivamente nel presente. Prevale, infatti, un senso complessivo di precarietà che si sperimenta in situazioni concrete: nelle difficoltà di chi cerca un lavoro o di chi, pur avendolo, non può farvi affidamento nel progettare la propria vita; nel rinchiudersi in una cultura del risparmio emotivo che rende instabili le relazioni, tanto da assistere al progressivo dissolversi dei nuclei fondamentali della società, prima tra tutte la famiglia. La disgregazione dei legami fa sì che la società perda progressivamente consistenza e la risposta pare essere la chiusura in un guscio di egoismo, che ha come estrema conseguenza la fine della persona quale centro di relazione.
Una società fondata sull’individuo atomizzato è una società sterile, che non è in grado di produrre né restituire qualcosa di significativo. Persino le mobilitazioni civili che si manifestano come portatrici di un alto profilo etico si rivelano talora segnate da pretese individualistiche, dove non sembra più essere la società nel suo complesso l’obiettivo da raggiungere, ma la semplice somma delle aspettative e degli interessi dei singoli.
Ma essere cittadini significa scoprire il valore della partecipazione – che contrasta ogni tentazione di delega – come modo normale di essere, significa vivere la solidarietà come proiezione sul prossimo, specie se in difficoltà. In questo contesto ritorna alla ribalta, ineludibilmente, il tema dell’educazione. Se rinunciare a capire significa accettare il rischio di poter essere travolti supinamente dal cambiamento, ciò comporta, come conseguenza, l’accettazione di non poterlo mai governare.
La fiducia è un fondamentale ingrediente del capitale sociale. Se a livello micro è premessa per relazioni positive ed efficienti, a livello macro costituisce il presupposto perché vi siano impegno e rispetto delle regole. È, quindi, garanzia per la riproduzione e la stabilità del sistema economico, politico e sociale. La fiducia nelle istituzioni, intesa come reciproca attesa di rispetto di regole, ruoli, procedure e come riconoscimento della loro legittimità, è una componente necessaria per il mantenimento della democrazia.
Per questo destano allarme i dati rilevati da recenti e numerose indagini che mettono in luce come i cittadini ripongano una fiducia sempre più contenuta proprio in quegli attori e gruppi che più di altri dovrebbero rappresentare e governare le istituzioni.
Il pericolo è che la sfiducia verso il prossimo si traduca ulteriormente in una chiusura privatistica che restringa ulteriormente i confini, ma anche in un’azione interessata limitatamente al piccolo gruppo di riferimento. Il cronicizzarsi di questo atteggiamento not in my backyard rischia di minare le basi della tenuta stessa della democrazia nel momento in cui si riflette nel calo della partecipazione politica e nell’impegno condiviso al raggiungimento del bene comune.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 13 gennaio 2014. Sfoglia l’indagine Tecnè in pdf

 

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