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Un paese che non investe nel futuro

di Fabio Germani

scuolaA Livorno, così come in altre città d’Italia, molte scuole sono sporche. E i genitori degli alunni comprensibilmente arrabbiati. Le imprese di pulizia stanno riducendo tutto: il monte-ore di lavoratori e lavoratrici (in alcuni casi persino del 60%) e, di conseguenza, gli stipendi. A non funzionare come dovrebbe, però, è un sistema intero. Le ragioni sono facili da spiegare. Il nostro è l’unico Paese dell’area Ocse che dal 1995 non ha aumentato la spesa per studente nella scuola primaria e secondaria, quando la crescita media è stata del 62%. La denuncia è di Anief-Confedir, che cita un dossier dell’agenzia Eurydice. Il punto è che ci stiamo allontanando sempre più dai confini europei e buttando via un potenziale enorme. Perché il problema non si limita agli studenti che interrompono gli studi intrapresi, o all’esercito di ricercatori ai quali viene tagliato l’assegno, o ai progetti che restano lettera morta per mancanza di fondi. Parte da molto prima, già dalle scuole elementari.
Nell’ultimo anno in Europa gli investimenti a favore dell’istruzione hanno registrato un aumento dell’1%. Peccato che in Italia sia avvenuto il contrario: una riduzione dell’1,2% rispetto al 2012. Non siamo i soli. A farci compagnia ci sono Malta, Regno Unito e Finlandia. Peggio (e non di poco) va a Irlanda, Croazia e Cipro. Ma ciò che ci differenzia dai maggiori partner del Vecchio continente è la discesa in termini di spesa, costante e graduale. Nel 2000 eravamo sotto di poco meno di tre punti percentuali nel confronto con la media Ocse, oggi siamo a -4,1%. È soprattutto in infrastrutture e Ict che non si investe, con buona pace di chi ancora si riempie la bocca con belle parole su sviluppo e innovazione. Per non parlare della messa in sicurezza degli edifici: di tanto in tanto crolla il tetto di una scuola, è bene ricordare.
Le università attraggono meno che in passato, per paradossale che sia nella società della conoscenza. Il tasso di passaggio – vale a dire il rapporto tra immatricolati all’università e diplomati di scuola secondaria superiore – è sceso al 58,2% nell’anno accademico 2011/2012 dal 73% del 2003/2004, anno in cui prese il via la riforma dei cicli accademici (dati Istat). C’è di che stupirsi? Non più di tanto visto che le difficoltà legate all’istruzione sorgono già in tenera età. A detta di Anief-Confedir molto dipende da “alcune manovre introdotte negli ultimi anni in regime di spending review”, come il blocco del turn-over, la precarizzazione del rapporto di lavoro e il rinnovato sistema di finanziamenti delle università (per la cronaca: l’ultimo Cdm ha approvato il decreto per lo sblocco degli scatti di anzianità negli stipendi del personale della scuola).
Un paese che non investe nell’istruzione è un paese che ha deciso di non investire su se stesso. La questione non si chiude qui, infatti. Durante l’ultimo governo Berlusconi, con la riforma Gelmini, l’orario scolastico è stato ridotto di un sesto. Quindi se in Italia gli studenti della scuola primaria stanno sui banchi per 4.455 ore, la media Ocse è di 4.717 ore. Analogamente sono 2.970 le ore impiegate nella scuola superiore di primo grado rispetto alle 3.034 dell’Ocse. “Un’operazione che ha spazzato via, come ragionieristicamente calcolato dal Mef, diverse decine di migliaia di insegnanti”, osserva in conclusione Anief-Confedir. Con il decreto scuola varato alcuni mesi fa il governo Letta ha tentato di metterci una toppa stanziando 15 milioni (11,4 quest’anno, 3,6 nel 2013) per la lotta alla dispersione scolastica, vale a dire “un programma di didattica integrativa che contempla il rafforzamento delle competenze di base e metodi didattici individuali e il prolungamento dell’orario per gruppi di alunni nelle realtà in cui è maggiormente presente il fenomeno dell’abbandono e dell’evasione dell’obbligo, con attenzione particolare alla scuola primaria”. Ma intanto le cose stanno così. E al vecchio adagio secondo cui conta la qualità, non la quantità, si può rispondere che evidentemente stiamo sbagliando qualcosa anche in questo. L’Italia, secondo l’Istituto Europa Asia, si colloca al 34esimo posto su 55 per attrattività, nel senso che abbiamo perso appeal per storia, lingua e influenza. Un motivo dovrà pure esserci.

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