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Le risposte che dovrebbe Pyongyang

Intervista a Massimo de Leonardis, professore di Storia delle Relazioni presso l’Università del Sacro Cuore di Milano
di Mirko Spadoni

corea_del_nordPyongyang deve – o meglio: dovrebbe – rispondere di accuse gravissime. Presentato il 17 febbraio a Ginevra, il rapporto della commissione d’inchiesta delle Nazioni unite sulla Corea del Nord accusa il Paese asiatico di “violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani” che in “molti casi costituiscono crimini contro l’umanità”. La commissione, istituita da una risoluzione approvata il 21 marzo del 2013 e composta dall’ex giudice australiano Michael Kirby, dalla serba Sonja Biserko e dall’indonesiano Marzuji Darusman, ha lavorato alacremente. Ha raccolto le testimonianze di 80 persone, ascoltate nel corso di quattro udienze pubbliche a Seul, Tokyo, Londra e Washington. Ha tenuto poi conto di molte altre interviste confidenziali (oltre 240) rilasciate da chi ha subito – o assistito – alle atroci violenze del regime, ma che per questioni di sicurezza ha dovuto mantenere l’anonimato. Emerge così che la Corea del Nord non esita a servirsi dei più biechi strumenti d’oppressione (esecuzioni e detenzioni arbitrarie in campi di prigionia e lavori forzati, condizioni detentive feroci, torture, assenza di libertà d’espressione e di culto) e a macchiarsi dei crimini più gravi (infanticidio, stupri, aborti forzati). Il paragone è durissimo: i campi di prigionia nordcoreani (gli kwan-li-so) sono identici a quelli “creati dai peggiori Stati totalitari del XX secolo”. Un parallelismo del resto inevitabile: i crimini commessi al loro interno sono gli stessi e i carnefici agiscono nella più totale “impunità”. Negli kwan-li-so e stando a quanto sostenuto da esperti sudcoreani e statunitensi, sono rinchiusi dagli 80 ai 200mila prigionieri politici (tra gli 80 e i 120mila, secondo l’Onu). Stime tuttavia obbligatoriamente approssimative: l’esistenza dei campi di concentramento e di lavoro è stata sempre negata da Pyongyang, anche se documentata da diverse organizzazioni internazionali. Soltanto qualche settimana fa, Amnesty International ha diffuso un rapporto (Corea del Nord: il continuo investimento nell’infrastruttura della repressione), che “rivela l’ulteriore allargamento di due dei più grandi campi di prigionia del paese, il 15 e il 16”. Negli ultimi vent’anni, la popolazione nordcoreana ha dovuto fare i conti con carestie terribili, in parte dovute alle condizioni climatiche altre volte per responsabilità diretta del regime (le stime riferiscono di un numero di vittime che varia da 300mila a 3 milioni). Pyongyang utilizzerebbe infatti il cibo come strumento di dominio, impedendo così ai cittadini ritenuti “sacrificabili” di sfamarsi. Tant’è che a novembre, secondo la versione del Programma mondiale alimentare dell’Onu (World Food Programme) e riferita dal New York Times, circa “l’80% delle famiglie della Corea del Nord non disponeva nella loro dieta della quantità essenziale di vitamine, minerali, grassi e proteine”. Gelida la reazione della Corea del Nord: il rapporto della commissione Onu è basato su “informazioni false fornite da forze ostili” al regime “sostenute da Stati Uniti, Europa e Giappone”, accusano da Pyongyang. Ma gravi responsabilità vengono addossate anche all’alleato più importante del regime del giovane Kim Jong-un: la Cina. Pechino avrebbe favorito il rimpatrio degli immigrati e i disertori nordcoreani, che una volta tornati in patria sarebbero stati sottoposti a torture ed esecuzioni. Per inciso: le donne nordcoreane che tornano dalla Cina, e si crede siano rimaste incinta da uomini cinesi, vengono imprigionate nei campi di lavoro e qui sono costrette ad abortire forzatamente con interventi chirurgici senza anestesia o attraverso le percosse dei carcerieri. Crudele anche il destino dei loro bambini, nati nonostante le violenze. Il motivo: preservare la purezza della razza nordcoreana. “Non possiamo accettare critiche così irragionevoli”, ha replicato la portavoce del ministero degli Esteri cinese Hua Chunying. “Non si tratta di rifugiati, ma di immigrati clandestini del Nord Corea”, ha proseguito. “La Cina ha gestito i loro casi secondo le leggi nazionali, internazionali e – ha concluso – nel rispetto dei principi umanitari”. Presentando il rapporto, Kirby ha invitato la comunità internazionale ad assumersi le proprie responsabilità: “Il mondo – ha ammonito – non può addurre l’ignoranza come scusa per aver fallito nel porre fine alle violazioni dei diritti umani in Corea del Nord. Adesso il mondo sa. Non c’è nessuna scusa”. Chi ha stilato il rapporto ha chiesto alle Nazioni Unite a riferire i gravi crimini commessi da Pyongyang al Tribunale Penale Internazionale o a “un tribunale parallelo, perché – come fa notare Kenneth Roth su Foreign Policy – molti dei crimini sono stati commessi prima del 2002, ossia prima dell’insediamento della Corte stessa (“istituita attraverso il Trattato adottato dalla Conferenza diplomatica di Roma il 17 dicembre 1998, ed entrato in vigore il 1° luglio 2002”, ndr)”. Kirby ha poi voluto far presente – attraverso l’invio di una lettera datata 20 gennaio 2014 – al dittatore nordcoreano Kim Jong-un i risultati del suo lavoro, invitandolo ad adoperarsi affinché vengano “accertate le responsabilità di tutti coloro, tra i quali lei forse è incluso, che potrebbero essere colpevoli di crimini contro l’umanità”. Per capire quali potrebbero essere le conseguenze del rapporto della commissione Onu, T-Mag ha contattato Massimo de Leonardis, professore di Storia delle Relazioni e delle Istituzioni Internazionali presso l’Università del Sacro Cuore di Milano. “Il regime coreano, con la sua serie di leader grotteschi, è oggi uno dei peggiori al mondo, combinando la tradizionale crudeltà dei sistemi comunisti con forme orientali di sadismo (si ricordi la tragica esperienza dei Khmer rossi in Cambogia)”, osserva il professore. “Non credo – sostiene – realistico ipotizzare un’incriminazione di Kim Jong-un. Il procuratore della Corte Penale Internazionale non è vincolato all’obbligatorietà dell’azione penale, tanto è vero che il Rais libico, il suo primogenito Saif Al-Islam Gheddafi e Abdullah Al-Senussi, capo dei servizi di intelligence di Tripoli, furono colpiti da un mandato d’arresto per crimini contro l’umanità, mentre ciò non è avvenuto contro Bashar Hafiz al-Asad”. “Il sistema della Corte Penale Internazionale è stato pensato per adattarsi ai rapporti di forza internazionali più che – sottolinea il professore – per rispondere ad una stringente logica giuridica. E non credo proprio che la Cina, membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e quindi in grado di bloccare la Corte, consentirebbe alla messa in Stato d’accusa di un alleato, seppure scomodo”. Una relazione, quella tra Corea del Nord e Cina, che rimane salda, nonostante alcune recenti vicende: soltanto qualche settimana fa, Jang Song-thaek, zio e ‘mentore’ di Kim Jong-un, è stato condannato a morte perché giudicato colpevole – secondo la versione ufficiale – di essere a capo di una corrente contro rivoluzionaria oltre ad aver una condotta poco idonea agli standard del regime (“dissoluta e depravata”, secondo i suoi accusatori). Molti osservatori hanno, però, fatto notare come Jang Song-thaek potesse essere considerato l’uomo di Pechino a Pyongyang. Un elemento interno al partito, che cercava di riformare l’economia nordcoreana sul modello cinese (“Volevo diventare premier per cambiare l’economia”, avrebbe confessato – stando ai dispacci – prima di essere ucciso). Possibile quindi che Kim Jong-un stia cercando di conquistare una sua autonomia rispetto all’alleato cinese? De Leonardis osserva: “La situazione dell’Estremo Oriente (in verità quella di tutta l’Asia) ricorda quella dell’Europa tra il 1870 ed il 1914: rivalità strategico-politiche fra le Grandi Potenze, nazionalismi, corsa al riarmo. Gli attori fondamentali sono gli Stati Uniti e la Cina. Entrambi i Paesi hanno degli alleati che devono proteggere, ma anche tenere sotto controllo: il Giappone e Taiwan nel caso di Washington, la Corea del Nord nel caso di Pechino. La storia ci presenta inoltre molti esempi di tentativi falliti della Potenza guida del mondo comunista di trovare alleati nei partiti “fratelli” che sfuggivano al suo controllo: lo fece Mosca con la Jugoslavia dopo il 1948 e con la Cina alla fine degli anni ’50, senza dimenticare le riuscite “purghe” contro i “titoisti” nel Paesi dell’Europa orientale. Anche l’intervento in Afghanistan nel 1979 fu motivato anche dalla lotta tra le fazioni comuniste in quel Paese. Non stupirebbe quindi se Jang Song-thaek fosse stato l’uomo di Pechino a Pyongyang, pronto ad adottare un modello cinese di sviluppo economico. Certamente per la Cina la Corea del Nord è un alleato imbarazzante, ma credo che quello dell’“immagine” non sia – conclude De Leonardis – il problema principale per Pechino”.

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