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Frida Kahlo: l’arte fra sogno e realtà

di Giampiero Francesca

frida_kahloUn viaggio fra corpo e anima, tra sogni (o incubi) che si fanno materia e realtà che si trasfigurano in visioni, allucinazioni, miraggi. E’ questa la magia restituita dall’opera di Frida Kahlo, in mostra alle Scuderie del Quirinale fino al 31 agosto. La collezione esposta nel complesso romano costruisce, infatti, un percorso attraverso la sua opera e il suo tempo, mostrando la complessità di un’artista troppo spesso etichettata come appartenente a correnti o movimenti. La scelta dell’allestimento ripercorre infatti cronologicamente la vita di Magdalena Carmen Frieda Kahlo y Calderón (Coyoacán, 6 luglio 1907 – Coyoacán, 13 luglio 1954); vita che si fonde in modo inscindibile con la sua arte, segnata, quanto il suo corpo, dai drammi vissuti. Sin dalla giovinezza, infatti, Frida Kahlo dovette combattere contro un destino avverso che a soli diciotto ne incise l’esistenza. Il 17 settembre 1925, mentre tornava a casa, l’autobus su cui viaggiava fu coinvolto, infatti, in un grave incidente. Le lesioni riportate dalla giovanissima artista furono gravissime e segnarono in modo indelebile il suo corpo e il suo spirito. Bloccata in letto, imprigionata dal busto che sorreggeva una colonna vertebrale gravemente ferita, Frida iniziò la sua personale riflessione fisica e metafisica sul corpo. Un corpo segnato, ma vivo, forte nella sua debolezza. E’ questa la sensazione che rimandano i suoi primi lavori, i suoi autoritratti.

Guardandosi nello specchio posto sopra il suo letto Frida superava i limiti imposti dalla sua condizione alla ricerca di qualcosa di molto più profondo, qualcosa di non traducibile se non attraverso la magia della sua pittura. Sullo sfondo dei suoi primi lavori, dietro i suoi vividi volti, si affacciava quel Messico la cui anima pervaderà tutto il suo lavoro. Un Messico che emerge protagonista in opere come “Pancho Villa e Adelita” (1927), in cui, dietro al quasi onnipresente autoritratto, l’artista ricompone scene della rivoluzione messicana in uno stile che riecheggia il cubismo. La realtà frammentata dipinta da Frida racconta della sua vicinanza al partito comunista (a cui si iscrisse nel 1928), dei suoi studi in materia, della sua partecipazione attiva alla vita politica del paese. Quel pese che è, al tempo stesso, terreno di lotta civile, ma anche natura e vita, simbolicamente rappresentati delle foglie, dai frutti, dai flutti e dai cieli che riempiono molti dei suoi ritratti. Una volta Rimosso il gesso Frida tornò a camminare, seppur fra i sempre presenti dolori, e a riscoprire quella pittura en plain air che aveva solo potuto sfiorare prima dell’incidente. Ma, soprattutto, tornò finalmente a muoversi e a viaggiare. Dopo l’incontro con il grande pittore, Diego Rivera, che diverrà, nel 1929, suo marito, Frida attraverserà per la prima volta quel confine, immanente e trascendente, che separa il Messico dagli Stati Uniti. Un’esperienza che si traduce nello splendido “Autoritratto al confine fra Messico e Stati Uniti” (1932), nel cui esplicito simbolismo l’artista rappresenta tutte le differenze, sostanziali e culturali, di due mondi così distanti. Natura e industria, tradizione e modernità, appaiono dicotomie manifeste sin nei più piccoli dettagli di questo quadro, come la piccola bandiera messicana che Frida stinge nella sua mano sinistra contrapposta alla sigaretta non casualmente posta nella sua destra.

Ma gli USA rappresentano per la pittrice anche l’ennesima, durissima, sfida del suo destino. Durante il soggiorno a New York l’artista rimase incinta ma, anche a causa di un fisico orami inadatto alla gravidanza, andò incontro ad un aborto spontaneo. Il bozzetto di “Henry Ford Hospital” (1932), presente nella mostra, racconta il dramma di questa vicenda in una nitida allucinazione, un incubo tragicamente reale vissuto dal letto dell’ospedale. Il suo corpo, la sua stessa anatomia, le era stata nuovamente nemica e così la sua mente la espelle pur rimanendone imprigionata, imbrigliata. Il dramma vissuto segnerà per lungo tempo le sue opere che, al tempo stesso, subirono l’ennesima metamorfosi stilistica. Dal 1938 infatti l’attività pittorica di Frida si intensificherà avvicinandosi al sentire dei surrealisti. Sempre più spesso la natura e l’uomo si fondono, trasfigurandosi in un magma che racchiude nelle sue immagini tutto ciò che è stato il pensiero, l’anima, il dolore e la paura di Frida. Il tardo “The Love Embrace of the Universe, the Earth, Myself, Diego and Senor Xolotl” (1949) rappresenta forse una delle massime espressioni di questa incredibile amalgama. Volgendo verso la fine della sua vita il complesso ed artisticamente fruttuoso rapporto con la sua fisicità, con il suo essere materiale, diverrà sempre più inesprimibile. La forza per guardarsi, orgogliosamente e dolorosamente, nello specchio sembra non albergare più nel cuore di Frida che lascia spazio, nella sue opere, alle nature morte, meno simboliche ma economicamente più facili e redditizie. Prima però di morire, il 13 luglio 1954, la grande artista lascerà un ultimo, emblematico, lavoro, andato quasi perduto e fortunosamente recuperato: l’“Autoritratto dentro un girasole”. Per l’ultima volta Frida si guarda, con mestizia e rassegnazione, nello specchio e riproduce, come sempre fatto, ciò che vede sul suo corpo e nella sua anima. La vitalità, la forza, la voglia di resistere delle prime opere svanisce in questo capo che si china, come un girasole, al tramonto. E’ il suo tramonto, una fine alla quale, anche la grandezza della sua arte non può che arrendersi.

 

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