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L’annosa questione dell’Articolo 18

di Fabio Germani

lavoro_valoriArchiviata la prima fase delle riforme costituzionali, (nel governo) si torna a parlare di lavoro. A tenere banco non è tanto la creazione di nuovi posti, bensì cosa la ostacolerebbe. E ancora una volta è l’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori l’indiziato numero uno, il principale colpevole. La questione crea un doppio fronte nell’esecutivo e nella maggioranza: Angelino Alfano e Ncd mirano all’abolizione dell’art. 18 per i nuovi assunti, Marianna Madia risponde che cancellarlo servirebbe a poco. L’argomento fu motivo di attrito già ai tempi della tanto discussa riforma Fornero – ne seguirono polemiche sul “posto fisso” che non esiste più – e la discussione appare oggi la medesima: “Sulle modifiche all’articolo 18 si dibatte solo per un puntiglio ideologico. Non le chiedono nemmeno le imprese. Si sfugge ai nodi veri del mercato del lavoro. Bisogna cancellare i contratti truffa come false partite Iva, co.co.co. della Pubblica amministrazione e co.co.pro.”, è la posizione espressa dal segretario della Cisl, Raffaele Bonanni.

Jobs Act
Da quanto se ne sa, secondo i resoconti di diversi organi di informazione, l’idea del governo è quella di ridurre le tipologie contrattuali a sei dalle quaranta che stima (la Cgil arrivò, qualche tempo fa, a contarne oltre 46, numeri però contestati in seguito da alcuni giuslavoristi). In questo modo il Jobs Act prevede che il tempo indeterminato, a tutela crescente, il tempo determinato, l’apprendistato e quella di somministrazione siano le principali forme di contratti.

Articolo 18
L’articolo 18 di per sé rappresenta un problema relativo interessando una platea in verità non così vasta (tanti esperti in materia condividono tale ipotesi), ma “fissa” nuovi problemi legati proprio alle modifiche contenute nella riforma Fornero. Su queste pagine, Maurizio Del Conte, professore di Diritto del lavoro all’Università Bocconi di Milano, spiegò cira un anno fa: “La riforma del mercato del lavoro ha tentato di incrementare una maggiore flessibilità in uscita rimodulando l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e, al contempo, di irrigidire l’ingresso al fine di evitare un utilizzo eccessivo dei contratti atipici a beneficio di un’unica tipologia contrattuale, quella a tempo indeterminato. Purtroppo l’intervento sui licenziamenti ha prodotto un ulteriore aumento dell’incertezza. Il nuovo Articolo 18 pone una serie di questioni interpretative ancora irrisolte, sia sotto il profilo processuale che sotto quello sostanziale. Il risultato è stato l’aumento delle fasi del giudizio e la scarsa prevedibilità sulla applicazione da parte del giudice del rimedio economico in luogo della reintegrazione”. In ogni caso, secondo i piani del governo, il licenziamento non potrà mai avvenire in modo discriminatorio e garantirà, oltre e a quanto maturato, un’indennità corrispondente a due giorni di lavoro per ogni mese lavorato.

Il problema si allarga al mondo delle imprese
Il governo si concentra sull’incremento di oltre centomila nuovi lavoratori negli ultimi due mesi (un numero senz’altro positivo, ma c’è da capire quanto abbiano influito i lavori stagionali), che tuttavia non vanno affatto a migliorare la condizione occupazionale del Paese (erano 22 milioni 510 mila l’anno scorso, sono 22 milioni 398 mila quest’anno). Il problema, dunque, si allarga al mondo delle imprese – in virtù della realtà italiana, composta per lo più da Pmi – per le quali il tasso di attività si attesta al 7% mentre il tasso di mortalità all’8%, conservando un valore negativo pari all’1% pressiché invariato dal 2011 (dati Istat).

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