I raid Usa contro lo Stato islamico in Siria
Gli Stati Uniti hanno attaccato lo Stato islamico laddove si sentiva più sicuro: in Siria. Lo hanno fatto anche grazie al sostegno di cinque Paesi arabi (Bahrain, Giordania, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti). “Una coalizione forte per far capire al mondo che non si tratta di una guerra che riguarda solo l’America”, ha osservato il presidente statunitense Barack Obama poche ore dopo la fine dei primi raid. Nel corso delle operazioni, iniziate alle 2 e 30 italiane, sono stati impiegati caccia (perlopiù F-16 di fabbricazione statunitense), bombardieri e missili Tomahawk, lanciati dalla USS Arleigh Burke e dalla USS Philippine Sea presenti nel Mar Rosso e nel Golfo Persico. Secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani, i jihadisti uccisi sono stati 120. Mentre sono state distrutte – o seriamente danneggiate – quattordici postazioni dello Stato islamico (campi d’addestramento, centri logistici per il rifornimento dei miliziani e depositi d’armi e munizioni), che tuttavia non è stato l’unico obiettivo dei raid. Nel corso degli attacchi sono state colpite anche otto postazioni di Khorasan, un gruppo jihadista guidato da un terrorista vicino al nucleo pakistano di al Qaeda, Muhsin al-Fadhli, e sospettato di preparare attentati contro “gli interessi statunitensi ed europei, anche reclutando cittadini occidentali”. Una minaccia troppo grande per Washington, che servendosi di alcuni droni aveva perlustrato a lungo nelle ultime due settimane la provincia di Raqqa, roccaforte dello Stato islamico. Attività di monitoraggio a cui avrebbero fatto seguito i raid di martedì, condotti dopo aver avvisato il governo siriano che si è poi detto pronto a fornire il proprio aiuto “per combattere il terrorismo”: “L’America – ha riferito Damasco, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa ufficiale Sana – ha informato il rappresentante permanente alle Nazioni Unite a New York che ci sarebbero stati attacchi contro lo Stato islamico a Raqqa”. Attacchi a cui il gruppo, guidato dall’autoproclamatosi califfo Abu Bakr al Baghdadi, vuole replicare quanto prima. Magari colpendo quei Paesi come l’Arabia Saudita, “colpevoli” di aver appoggiato l’iniziativa statunitense a cui non hanno invece preso parte gli alleati occidentali come la Francia, che solo qualche giorno prima aveva attaccato lo Stato islamico in Iraq, e la Gran Bretagna. Pur giudicando lo Stato islamico “una minaccia per la sicurezza internazionale”, Londra non infatti ha partecipato ai raid di martedì. Ma non è detto che possa accadere in futuro anche grazie al sostegno dell’opinione pubblica. Il 52% dei cittadini britannici si è infatti detto favorevole ad un’eventuale coinvolgimento della RAF nelle operazioni contro l’IS sul suolo siriano, secondo un sondaggio condotto da YouGov (Support Grows for RAF Air Strikes, even into Syria). Quelli contrari sono il 27% (in calo del 10% rispetto a quanto rilevato ad agosto).
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