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Quanto è “precario” il nostro paese?

Più o meno dei partner europei?
di Fabio Germani

giovani_lavoro_disoccupazioneL’idea del governo è quella di cancellare i co.co.pro “e tutte quelle forme di collaborazione che hanno fatto del precariato” la formula più utilizzata nel mercato del lavoro. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, lo ha detto chiaro e tondo durante la sua intervista a Che tempo che fa di domenica sera. Annunciando, peraltro, il confronto sul tema in direzione Pd. Sul precariato, “spauracchio” che di fatto si è palesato almeno mediaticamente con l’introduzione della riforma Biagi (il Libro Bianco era qualcosa di più vasto rispetto ai successivi risultati), il dibattito è da sempre serrato. Potremmo distinguere in questo senso due scuole di pensiero. Una che ritiene il precariato il principio di tutti i mali, l’altra che considera in definitiva i contratti atipici un modo per esorcizzare la disoccupazione per quanto lacunosi in termini di tutele e garanzie per i lavoratori. Uno strumento, insomma, sì utilizzabile, ma da rivedere in alcune fattispecie.
Una prima forma di flessibilità giunse con il pacchetto Treu del 1997, con il tasso di disoccupazione che dal 1998 al 2002 scese dall’11,44% all’8,55%. Poi fu la volta della legge 30 (riforma Biagi) e del coinvolgimento che si estendeva alle categorie lavorative non protette. La riforma Fornero del 2012, che viaggiava parallelamente a quella delle pensioni, tentava di correggere l’anomalia – che tanto anomalia non è, come vedremo tra poco – del lavoro precario. Con scarsi risultati, va detto, anche perché nel frattempo la crisi economica ha deteriorato l’intero sistema economico e inevitabilmente anche il mercato del lavoro. Ma del precariato, appunto, se ne parla ogni volta quasi fosse una malattia tutta italiana. È davvero così?
In realtà no, e a dimostrarlo fu proprio un’indagine della Cgil (la stessa che contò 46 forme contrattuali atipiche nel nostro paese, numero in verità contestato da diversi giuslavoristi). All’epoca, inizio 2012, fu fatto notare, citando l’Eurostat, che erano nove milioni i lavoratori nel vecchio continente con contratti di durata inferiore ai sei mesi, di cui l’80% persone con meno di 40 anni. Il confronto era su otto paesi (Regno Unito, Germania, Svezia, Spagna, Italia, Belgio, Slovenia e Francia) e si passava dai due contratti su tre a tempo determinato dell’Italia al contratto della medesima tipologia su sei della Svezia (appena il 15% del totale). In generale, tuttavia, la retorica secondo cui l’Italia sia tra i più atipici non ha ragione d’esistere. Basta prendere in esame i dati Istat. Il rapporto Noi Italia del 2013, infatti, attestava i dipendenti con un contratto a termine al 13,4%, valore poco inferiore alla media europea. La tendenza appare confermata nell’ultimo rapporto Noi Italia (l’anno di riferimento è il 2012): il lavoro a termine ha un’incidenza nel nostro paese pari al 13,8%. In Germania è al 13,9%, in Francia al 15,2% e in Spagna 23,6%. Molto più in basso si colloca il Regno Unito con il 6,3% dei dipendenti a tempo determinato.
Dunque, dati alla mano, andrebbe dirottato il paradigma dalla quantità alla qualità del lavoro. Ma non si pensi che altrove l’andamento, soprattutto tra i più giovani, sia migliore del nostro. Sempre l’indagine della Cgil rilevava che in Germania il numero di impieghi a basso salario era cresciuto dal 17,7% del 1995 al 23,1% del 2010 (+30%) mentre un giovane lavoratore qualificato su cinque aveva svolto un tirocinio, ma nella metà dei casi senza remunerazione e nell’altra metà per un compenso troppo basso da garantirsi una sussistenza e dunque una completa indipendenza.

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