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Limiti e ambiguità della comunità internazionale

di Gianluca Pastori*

libiaL’attuale crisi libica è il frutto (avvelenato) dell’intervento militare del 2011, culminato nell’azione dell’Alleanza Atlantica e nell’operazione Unified Protector. Il collasso del sistema di potere gheddafiano – pur con tutti i limiti che lo hanno caratterizzato – si è tradotto, infatti, nella liberazione (politica e militare) delle autonomie regionali e delle fedeltà individuali che caratterizzano l’apparato di potere del Paese sin dagli anni della dominazione ottomana. A questa dinamica si sono, quindi, sovrapposte la ambizioni di una serie di potenze (regionali e non) che hanno sfruttato le fratture fra le varie fazioni così da ricavare propri spazi di manovra. A questo scenario complesso si lega la frattura di inizio 2014 fra il governo riconosciuto della comunità internazionale (ora insediato a Tobruk intorno alla Camera dei Rappresentanti e al suo ‘uomo forte’, generale Khalifa Haftar) e i vertici del Nuovo Congresso Nazionale Generale, legato agli ambienti della Fratellanza Musulmana. Fra le due fazioni principali (a loro volta frammentate in una pluralità di soggetti spesso in accesa competizione) si sono infine inserite, come ‘terzo incomodo’, le forze dell’ISIS, la cui presenza rimane, tuttavia, limitata ad alcune aree, soprattutto nella parte orientale e contro-orientale del Paese.

Più che di supposti obiettivi strategici, la presenza dell’ISIS in Libia appare, quindi, il prodotto di una situazione che, nel corso degli ultimi anni, ha assistito alla progressiva radicalizzazione dello scontro fra le fazioni e all’irrigidimento delle agende dei diversi attori coinvolti. Allo stesso modo, nonostante le visibilità assunta negli ultimi tempi – e alimentata attraverso una strategia di comunicazione agghiacciante quanto efficace – il problema dell’ISIS rappresenta solo parte di una questione più ampia, connessa al mai davvero affrontato problema di nuovi assetti della Libia. La coalizione multinazionale che ha sostenuto e implementato Unified Protector escludeva in maniera programmatica un coinvolgimento ‘di lungo periodo’ nella riabilitazione sociale e politica di un Paese considerato (forse con un certo grado di superficialità) capace di procedere ‘con le sue gambe’ sulla strada della democrazia. Le illusioni sollevate dal dispiegarsi, negli stessi mesi, delle ‘Primavere arabe’ si sono saldate, in questo, con la lezione appresa in Iraq e in Afghanistan riguardo ai costi e alla durata delle missioni ‘di stabilizzazione’ e, più in generale, con una voglia di disimpegno che sembrava avere interessato le Potenze euro-atlantiche dopo la ‘sovraesposizione’ del decennio precedente.

Da questo punto di vista, poco sembra cambiato negli ultimi quattro anni. Al contrario, il ridimensionamento della presenza NATO in Afghanistan con l’avvio della missione Resolute Support sembra fornire il suggello definitivo alla politica di retrenchment di Stati Uniti ed Europa. Nello stesso senso sembrano puntare le scelte ‘di basso profilo’ compiute da Washington sulla scena irachena. Tuttavia, l’indisponibilità ad impegnarsi in sforzi prolungati (con i costi che essi, comportano sul piano economico e su quello politico) limita parecchio lo spettro delle opzioni aperte alla comunità internazionale e rende la via militare una strada sostanzialmente impercorribile. Al di là degli obiettivi immediati che l’Egitto mira a ottenere con gli attacchi aerei lanciati negli ultimi giorni (e che hanno a che fare con l’indebolimento delle posizioni della Muslim Brotherhood quanto con quello delle milizie legate allo Stato Islamico) sembra difficile ipotizzare una soluzione stabile basata esclusivamente sul ricorso alla forza, soprattutto senza la volontà di un impegno duraturo da parte degli Stati-guida di una possibile coalizione internazionale e senza ipotizzare il ricorso a un intervento di forze di terra, intervento che i diversi protagonisti sono stati solleciti ad escludere.

-Altri fattori militano contro l’ipotesi di un’azione militare su larga scala. Nessun Paese appare, al momento, capace di aggregare intorno a tale azione un consenso adeguato né ad assumere la guida di un eventuale intervento. Al di là dei velleitarismi, l’Europa (intesa sia come Unione, sia come somma di singoli Stati) non sembra possedere le necessarie capacità politiche e militari. Essa è, inoltre, attraversata all’interno da fratture profonde, che proprio gli eventi all’origine dell’attuale crisi hanno contribuito ad accentuare. Gli Stati Uniti, dal canto loro – già coinvolti obtorto collo nell’intervento del 2011, proprio a causa delle incertezze e delle rivalità europee – non paiono intenzionati ad assumere alcun ruolo attivo in una crisi che – anche prescindendo dallo spostamento che il focus della loro politica ha sperimentato verso l’area dell’Asia/Pacifico – ne tocca gli interessi solo marginalmente. Ciò ancor di più in un anno che potrà essere fondamentale per la corsa elettorale del 2016 e con un candidato in pectore (l’ex Segretario di Stato Hillary Clinton) la cui condotta e le cui scelte nel corso della prima crisi libica sono state fatte oggetto di pesati critiche da parte di un’opposizione che, in seguito alle ultime elezioni di midterm, controlla entrambe le Camere del Congresso.

E a queste considerazioni che si lega, in larga misura, la scelta (che per ora pare quella vincente) di internazionalizzare la crisi delegandone la gestione all’ONU. A prescindere dall’efficacia dell’azione collettiva, essa permette di trasferire a una più ampia ‘camera di compensazione’ le tensioni tuttora esistenti intorno al futuro della Libia, richiamando in gioco – seppure in modo indiretto – gli Stati Uniti e allontanando la possibilità di un intervento armato intorno al quale il consenso sembra ancora debole. Oltre l’emotività, nessuno appare davvero disposto ad affrontare le incognite di un intervento in un Paese complesso e frammentato come la Libia, specialmente in assenza di referenti credibili e legittimati al suo interno. Lo stesso generale Haftar – su cui l’Egitto di al-Sisi sembra avere giocato le proprie carte – appare difficilmente in grado di assolvere questo ruolo. Nonostante la posizione di forza che detiene, quello che è stato – forse sbrigativamente – etichettato come l’‘uomo della CIA’ o ‘l’al-Sisi libico’ non appare, infatti, in grado – per storia personale e per capacità di mobilitazione – di divenire il punto di riferimento ‘sul campo’ di un eventuale coalizione internazionale né, a maggior ragione, il leader di un ‘blocco nazionale’ stabile e politicamente accettato.

Da questo punto di vista, le esitazioni della comunità internazionale riflettono il vicolo cieco apparentemente imboccato dalla crisi libica. L’esperienza (da ultima quella della campagna contro l’ISIS nell’Iraq settentrionale) ha dimostrato come il ricorso all’arma aerea possa condurre a risultati credibili solo se sostenuta da un’adeguata iniziativa sul terreno. In assenza di questo, gli esisti di un impiego anche massiccio dell’aeronautica, sono al più, palliativi. Allo stesso modo, ogni iniziativa militare perde credibilità se non è appoggiata da un progetto politico credibile e di lungo termine. Allo stato attuale delle cose, entrambi questi elementi sembrano mancare. Oggi come nel passato, la ‘messa in sicurezza’ della Libia richiede molto tempo e molto denaro: due risorse che la comunità internazionale non sembra, oggi, disposta a investire. Dal punto di vista italiano, la cosa assume una connotazione particolare. La Libia, al di là della prossimità geografica, ha tradizionalmente rappresentato un partner privilegiato di Roma, sia sul piano politico, sia su quello economico. Gli avvenimenti del 2011 hanno assestato un duro colpo a tale stato di cose. Tuttavia, la possibilità di recuperare un ruolo-guida attraverso il tentativo di ‘pilotare’ la crisi attuale appaiono, quanto meno, remote.

In Italia si ripropongono, infatti, in scala ridotta ma con particolare evidenza, i limiti e le criticità sopra evidenziate, unite a una frammentazione del panorama politico che rende difficile aggregare – e, soprattutto, mantenere – il consenso necessario alla condotta di un’azione militare efficace. Egualmente difficile appare individuare quali siano i fini di tale azione, tolto quello – emotivamente pregnante ma di portata strategica limitata – di ‘disabilitare’ una possibile minaccia ‘ad ampio spettro’ rappresentata dall’ISIS. Il futuro dell’ex Jamahiriya si gioca, infatti, entro un quadro europeo e internazionale nel quale, per una lunga serie di fattori, le capacità di manovra dell’Italia appaiono assai limitate. Da questo punto di vista, la multilateralizzazione della crisi appare, dunque, una scelta coerente con i vincoli che – strutturalmente – caratterizzano lo scenario nazionale. Non è un caso che questa scelta ricalchi quella compiuta già nel 2011, quando l’inserimento all’interno del quadro NATO dell’iniziativa di Parigi e di Londra ha consentito a Roma di ricavare – almeno sul breve termine – spazi d’azione dapprima preclusi e di sfruttare a proprio vantaggio il principio del consenso (consensus) sul quale poggiano – a livello formale – tutte le decisioni prese dall’Alleanza Atlantica.

*Gianluca Pastori è Professore aggregato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.

 

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