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La propaganda dello Stato islamico

di Mirko Spadoni

dabiqIl gruppo terrorista dello Stato islamico (IS) ha rivendicato la paternità degli attentati di Bruxelles del 22 marzo attraverso una nota, affidando la sua diffusione ad un canale fidato: Amaq News Agency.
Non è stata una scelta casuale: Amaq è un’agenzia di stampa considerata vicina allo Stato islamico. Tuttavia, per quanto considerata abbastanza attendibile, non fa parte della galassia comunicativa messa in piedi dall’IS: sul proprio sito internet, fino a poco tempo fa l’agenzia si descriveva come una voce “non ufficiale” (ghayr rasmī) dell’organizzazione di Abu Bakr al Baghdadi.
Ossessionato dalla propaganda, lo Stato islamico ha sviluppato una struttura complessa ed articolata per diffondere i propri messaggi e reclutare quanti più combattenti possibili. Uno studio condotto da Charlie Winter, un’analista del Quilliam Group, ha provato a tracciarne una mappa, ottenendo risultati sorprendenti. Dallo studio emerge che l’IS dispone di 36 uffici media, ognuno dei quali dipende direttamente dall’ufficio centrale con sede a Raqqa, in Siria.
Secondo Winter, al Furqan, al I’tisam e Ajnad Foundations e al Hayat Media Center sono gli organi centrali della propaganda dello Stato islamico, che ha aperto anche una stazione radio (al Bayan), una casa editrice (al Himma Library) e pubblica Dabiq, un mensile in lingua inglese che prende il nome da una città siriana indicata nell’hadith 6924 — ovvero la raccolta dei pensieri di Maometto — come il luogo dove cristiani e musulmani si affronteranno nella battaglia decisiva.

“Le Ultime Ore non arriveranno fino a quando i Romani non saranno ad al-A’maq, a Dabiq. Un esercito costituito dai migliori soldati delle genti della terra arriverà allora da Medina. E questi combatteranno e un terzo dell’esercito fuggirà via, e Allah non lo dimenticherà mai. Un terzo sarà ucciso e sarà costituito da martiri eccellenti agli occhi di Allah. Un terzo messo alla prova vincerà e sarà conquistatore di Costantinopoli”.

Un rapporto del Combating Terrorism Center (CTC) osserva che, anche prima di assumere l’attuale denominazione di IS, l’allora Stato islamico dell’Iraq si era dotato di una struttura comunicativa molto articolata già nel 2008, per poi perfezionarla dopo l’espansione nella vicina Siria.
La propaganda è stata sempre importante per le organizzazioni jihadiste — Osama bin Laden inviava i suoi messaggi video ad al Jazeera, ricordate?-, ma ciò che distingue lo Stato islamico dai suoi predecessori è la qualità della produzione “editoriale” e (forse) anche il target. La propaganda di al Qaida, che non ha mai sviluppato una capacità comunicativa paragonabile a quella dell’IS, era caratterizzata da messaggi infarciti di citazioni religiose e influenzati da pensatori radicali come Sayyd al Qutb e Abdullah Azzam, spesso incapaci di affascinare ragazzi cresciuti nei Paesi occidentali. Una lacuna che non è passata inosservata a Anwar al Awlaki, un cittadino statunitense-yemenita, che nel 2010 ha creato Inspire, “una rivista in inglese per la diffusione dei concetti del radicalismo islamico in Occidente che — osserva Limes — mutua grafica e linguaggio (semplice e diretto) dalle riviste patinate europee e americane”. Ma la morte improvvisa di al Awlaki, ucciso da un drone statunitense nel 2011 insieme al “direttore” di Inspire Samir Khan, “ha tolto propulsione alla sperimentazione comunicativa interna ad al Qaida, le cui principali organizzazioni (AQAP, AQIM, ecc.) sono rimaste dominate dalla precedente generazione dei jihadisti afghani”.
Lo Stato islamico è un’altra cosa rispetto ad al Qaida. Lo è sotto diversi punti di vista, quello militare-strategico — l’IS ha proclamato la costituzione del Califfato, che si estende in Iraq e in Siria, amministrandolo come fosse uno Stato — e quello comunicativo, a cui dedica attenzioni (molto) particolari, come dimostrato da un’inchiesta del Washington Post. Secondo le informazioni raccolte dal quotidiano statunitense, gli esponenti della divisione media dell’IS vengono trattati con un occhio di riguardo dai vertici dell’organizzazione, che li pone sullo stesso piano degli “emiri”, riconoscendogli anche un salario più alto rispetto a quello percepito dai singoli combattenti.
Gli esperti di comunicazione agli ordini di Abu Bakr al Baghdadi ripagano la sua fiducia, dimostrando una grande abilità nel servirsi di media differenti per raggiungere pubblici differenti.
Ad esempio al Hayat Media Center pubblica settimanalmente Islamic State Report, una brochure che mostra le vittorie militari dell’IS e il trattamento riservato alle popolazioni che hanno giurato fedeltà al Califfo, con lo scopo di convincere i familiari dei jihadisti stranieri (o aspiranti tali) a seguire l’esempio dei loro cari, sollecitandoli alla hiğra (emigrazione) nel sedicente Califfato. Il primo numero conteneva un’intervista ad Abu Salih Al-Ansari, il responsabile dell’Ufficio per la protezione dei consumatori.
Nella strategia comunicativa dell’IS, anche i social network (Facebook, Twitter…) ricoprono un ruolo fondamentale. L’utilizzo spasmodico di Twitter da parte dei membri e dei sostenitori dello Stato islamico è una prova evidente. Uno studio del Brooking Institution stima che tra ottobre e dicembre del 2014 gli account Twitter utilizzati dai sostenitori dell’IS erano almeno 46mila, anche se non tutti erano attivi allo stesso tempo. Secondo il rapporto, il successo online dello Stato islamico è attribuibile all’attività di un gruppo “relativamente piccolo” di utenti “iperattivi”, che gestiscono tra i 500 e i 2.000 account.
Tuttavia recentemente, alla ricerca di una maggiore discrezionalità, i membri dello Stato islamico hanno iniziato ad utilizzare Telegram, un servizio di messaggistica istantanea creato dai fondatori del social network russo Vkontakte, Nikolai e Pavel Durov, che permette agli utenti di cancellare un messaggio una volta inviato e arrivato al destinatario.
Secondo il CTC, sui social network — e su Twitter, in particolare — lo Stato islamico ha adottato una strategia di basso profilo, rinunciando all’apertura di canali “ufficiali”. The Islamic State 2015, un ebook di cento pagine pubblicato in un inglese imperfetto nel gennaio dello scorso anno, spiega la ragione di questa scelta.

“Il mondo dello Stato islamico online è simile al suo concreto mondo reale, dove ogni cosa è decentralizzata. Esempio: così come nella vita reale nessuno sa dove il califfo Ibrahim (Abu Bakr al Baghdadi) si trova, allo stesso modo nessuno può trovare un sito web centrale che possa essere visitato per trovare lo Stato islamico “e i suoi contenuti”. Questo è assai importante perché nascondendo il luogo in cui si trova il califfo Ibrahim, nessuno può facilmente assassinarlo. Allo stesso modo, non avendo un sito web nessuno può attaccarlo e cantare vittoria online”.

Eccezion fatta per l’Arabia Saudita, lo studio del Brooking Institution ha localizzato la maggior parte degli account Twitter dei sostenitori dello Stato islamico in Iraq, Siria e nei territori sotto il suo controllo. Dunque in zone dove le infrastrutture sono pressoché inesistenti e collegarsi alla rete Internet può essere particolarmente difficile. Un problema che lo Stato islamico è riuscito a risolvere.
Secondo un’inchiesta del settimanale tedesco Spiegel, nella provincia di Hatay — “un angolo di Turchia tra il Mediterraneo e il confine siriano” — si possono comprare per circa 460 euro un modem e una parabola in grado di di ricevere il segnale dal satellite, scaricando a 22 e trasmettendo a 6 megabyte al secondo. Alla spesa per acquistare la strumentazione necessaria per collegarsi ad Internet, che viene distribuita in Medio Oriente dai principali operatori satellitari europei, va aggiunta la tariffa di navigazione che in Siria “si aggira intorno ai 450 euro per sei mesi e consiste in un piccolo pacchetto dati che l’utente riceve via email”. Possedere i soldi per assicurarsi una parabola, un modem e pagare un abbonamento può non essere sufficiente. Come spiegato dagli attivisti di Aleppo24 e DeirEzzor24, nei territori controllati dallo Stato islamico solo chi ha giurato fedeltà al sedicente Califfo ottiene il permesso di accedere ad Internet.

 

1 Commento per “La propaganda dello Stato islamico”

  1. […] dello Stato islamico hanno un attenzione maniacale per la propaganda – ve ne avevamo già parlato qui – e per il loro ultimo prodotto editoriale hanno scelto un nome significativo: lunedì 5 […]

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