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Social network e censura 2.0

di Umberto Schiavella

censuraCinque anni fa, una ricerca dell’Università di Bristol dal titolo Mood of the Nation aveva dimostrato come si poteva prevedere la nascita di una rivolta semplicemente partendo da un’analisi approfondita dei tweet. Analizzando oltre 484 milioni di tweet inviati da 9,8 milioni di persone e classificandoli in base a delle parole chiave come gioia, paura, rabbia e tristezza, i ricercatori sono stati in grado di identificare l’umore dell’Inghilterra in un lasso di tempo determinato notando un crescendo di astio e rabbia proprio qualche giorno prima dei cosiddetti “riots” di Londra, quando migliaia di giovani misero a ferro e fuoco interi quartieri della città per protestare contro l’uccisione di Mark Duggan, un uomo nero di 29 anni ucciso dalla polizia qualche giorno prima.

Al giorno d’oggi esprimere le proprie opinioni o il proprio dissenso è un’operazione molto semplice e quasi scontata, basta aprire uno dei nostri profili social, scegliere le giuste parole e i giusti hashtag per far viaggiare il nostro pensiero in ogni parte del mondo.
I social network sono in grado di ospitare l’azione sociale, la partecipazione politica e la manifestazione del dissenso, pensiamo alla Primavera Araba, a Occupy Wall Street, agli Indignandos, tutte proteste nate, cresciute e sviluppatesi attraverso un uso “rivoluzionario” di questi strumenti di comunicazione che hanno reso possibile l’organizzazione di una massa critica senza precedenti. Ma la massa critica fa paura ai governi, soprattutto a quelli autoritari che vedono in questi strumenti tecnologici e comunicativi delle vere e proprie armi di informazione di massa nelle mani dei semplici cittadini, armi che, per non colpire, devono essere sottoposte a restrizioni e divieti. Secondo il rapporto Freedom of the Net 2015, sono ben 19 i paesi nel mondo che hanno dichiarato guerra a internet e di questi, solo alcuni avrebbero impedito l’accesso in maniera attiva i canali social.

In Turchia Facebook, Twitter e YouTube vengono bloccati in continuazione dal governo di Erdogan con lo scopo di evitare critiche, denunce e manifestazioni contro le continue violazioni dei diritti umani perpetrate dallo stato turco. Ufficialmente si tratta di misure volte a tutelare l’ordine pubblico, misure che vengono applicate in base a specifiche circostanze, come, ad esempio, durante un attentato. Solo nel mese scorso, in Turchia, come rivela un rapporto di Press for Freedom, sono stati censurati oltre 100 mila siti web. Nello stesso periodo il sito dell’agenzia pro-curda Diha è stato oscurato ben 37 volte, mentre 13 dei suoi reporter sono stati arrestati. Dall’inizio del 2016 sono stati arrestati 33 giornalisti, 12 sono finiti sotto processo con l’accusa di insulti al presidente, mentre 894 sono stati licenziati. Ad aggravare la situazione è proprio la sopraggiunta censura delle pagine internet, nonché l’estrema lentezza della rete.

In Uganda, lo scorso febbraio, il presidente Yoweri Museveni, che governa il paese da ormai trent’anni, ha vinto le elezioni per la quinta volta e, come risposta alle rimostranze di chi lo accusava di brogli elettorali, ha bloccato Facebook durante le celebrazioni della sua vittoria. Rimanendo in Africa, anche in Angola non se la passano bene, il presidente Dos Santos, in carica da 36 anni, durante il suo discorso per il nuovo anno ha inveito contro i social network colpevoli, a suo dire, di non rispettare i personaggi politici al governo e dichiarando che gli angolani che non parleranno del governo in modo appropriato affronteranno la repressione della censura. In Angola gli utenti internet rappresentano appena il 26% della popolazione, una percentuale molto bassa rispetto ai paesi più industrializzati, ma una percentuale preoccupante per l’élite angolana che inizia a vedere con sospetto quello che viene condiviso online e, di riflesso, per quello che può trasparire agli occhi della comunità internazionale. Dos Santos ancora non ha bloccato l’accesso ai contenuti digitali, ma la strada della repressione sembra essere già stata imboccata.

In Iran, a detta del governo, internet lede la morale islamica e, per questo motivo, è stato bloccato l’accesso al 70% dei siti web e ai canali social più usati: Viber, WhatsApp, Twitter e Facebook. Questo non ha impedito ai ragazzi più giovani di trovare delle scappatoie per continuare a postare sui social come, ad esempio, l’utilizzo di server proxy attraverso i quali gli utenti riescono ad aggirare la censura e a connettersi al World Wide Web. Ma non si tratta solo di dissidenza o protesta, pensiamo al profilo Rich Kids Of Instagram dove anche i figli della ricca e opulenta élite di Teheran pubblicano foto dove ostentano la loro ricchezza contraria ai dettami dell’Islam radicale. Circa un mese fa nella Repubblica Islamica sono state arrestate delle modelle per aver pubblicato delle foto senza veli su Instagram, un’operazione legata al mondo della moda, ma che rientra nella volontà di colpire il social delle foto e contrastare l’impiego di internet nel paese dove, al momento, solo il 40% della popolazione accede alla rete.

Anche il Vietnam è balzato agli onori della cronaca dopo aver bloccato Instagram e Facebook in seguito ad un disastro ambientale che ha provocato una moria di pesci provocata, secondo l’opinione pubblica, da un’azienda di Taiwan e che ha innescato una serie di proteste, scontri e manifestazioni da parte della popolazione. Anche qui i vietnamiti sono riusciti ad aggirare il blocco utilizzando un servizio Vpn della società israeliana “Hola” attraverso il quale sono riusciti a continuare a postare foto, video, a condividere messaggi e ad organizzare raduni, incontri e manifestazioni. In Vietnam, il sistema di controllo della rete è stato definito “Bamboo Firewall” e il governo, con la scusa di proteggere i suoi cittadini da contenuti ritenuti osceni o di natura sessuale, in realtà filtra i contenuti politici religiosi ritenuti pericolosi che potrebbero intaccare il potere del partito comunista. Completamente tagliata fuori da internet è la Corea del Nord, qui solo pochi eletti possono accedere al web reale, il resto della popolazione dispone di una propria rete sicura scollegata da quella presente in tutto il mondo e, per questo motivo, totalmente tagliata fuori dal fenomeno dei social network.

Anche se la sua influenza geopolitica è in continua crescita, in Cina, le condizioni dei diritti umani sono ancora drammatiche. Con la scusa della sicurezza nazionale il governo ha aumentato la repressione adottando una serie di provvedimenti in grado di mettere a tacere il dissenso e di reprimere i difensori dei diritti umani intensificando i controlli su internet, ma non solo, anche sui mezzi di comunicazione tradizionali e nel mondo accademico. Nella Repubblica Popolare Cinese Google e i social media, ma anche il New York Times e non solo sono vietati e, secondo uno studio del 2015 pubblicato su Science da alcuni ricercatori dell’Università di Harvard, circa il 40% dei post pubblicati sulle piattaforme cinesi viene censurato con lo scopo di evitare la diffusione delle adesioni alle manifestazioni di protesta organizzate proprio su questi canali. Il governo cinese è inflessibile, il Grande Firewall (termine coniato da Wired) o Scudo d’Oro come è chiamato dai cinesi, è l’imponente sistema di censura e sorveglianza in grado di bloccare decine di migliaia di siti considerati dannosi per la propaganda e il controllo del Partito Comunista. Inoltre, i burocrati stanno lavorando ad una legge sulla sicurezza digitale per codificare, organizzare e rafforzare il controllo sul web, mentre sono state già introdotte delle nuove norme che limitano la pubblicazione di contenuti online da parte delle aziende straniere, nonché un maggiore stretta sui gestori delle reti private, le VPN usate dagli utenti cinesi per aggirare censura e firewall. La Cina ha iniziato da subito a bloccare internet, già a partire dal 1996, appena sbarcato nel paese della Grande Muraglia. Google venne bloccato la prima volta nel 2002, poi fu la volta di YouTube dopo i disordini in Tibet del 2008, seguiti da Facebook e Twitter in seguito agli scontri nello Xinjiang del 2009.

Infine, c’è la Russia di Vladimir Putin, nazione borderline per quanto riguarda libertà di informazione, censura e web. Dopo le proteste di Mosca del 2012, la politica dello Zar russo è cambiata. Migliaia i siti e le pagine internet censurate e controlli sistematici su un ristretto numero di individui ritenuti pericolosi per la democrazia russa. La strategia perseguita da Putin nel contrastare il web è basata su una teoria abbastanza arretrata e paranoica: il Presidente russo, attraverso uno schema prettamente ex sovietico, attribuisce a internet l’immagine di un “grande fratello americano” in grado di controllare il mondo e la sua popolazione e, per questo motivo, deve essere costantemente monitorato nonché, il più delle volte, censurato.

Paese che vai, usanze che trovi… Forse sarebbe meglio se, tra un selfie, un video di gattini o un pezzo di chianina che stiamo fotografando prima di degustarlo, pensassimo ogni tanto al valore della libertà di espressione e al potere di una informazione vera, libera e indipendente, cose che, attualmente, diamo per scontate.

 

1 Commento per “Social network e censura 2.0”

  1. […] un tweet, sette profili sono account protetti, compreso l’account di Yahya Jammeh, Presidente del Gambia (@JammehOfficial). Il 46% (370 account su 793) sono stati ufficialmente verificati da Twitter. […]

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