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L’impatto economico dello smart working

computer_lavoroGrazie alla sempre più ampia diffusione delle nuove tecnologie – come gli smartphone, i tablet e il cloud per esempio – c’è una forma di lavoro che sta prendendo sempre più piede, tanto da richiedere una regolamentazione anche in Italia: lo smart working.
Proprio mercoledì, la Commissione Lavoro del Senato ha dato il via libera ad un disegno di legge sul lavoro autonomo. Il testo, che dovrà passare ora all’esame dell’Aula di Palazzo Madama, è atto, appunto, a introdurre anche delle regole per il cosiddetto “lavoro agile”.
Sostanzialmente si tratta di un accordo tra il datore di lavoro e il dipendente che ritratta le tradizionali modalità di lavoro, consentendo al dipendente di svolgere le proprie mansioni con più flessibilità, sia dal punto di vista degli orari che dal punto di vista del luogo in cui svolgerà il proprio lavoro, con vantaggi economici da ambo i lati.
Nonostante si tratti di una modalità ormai conosciuta e messa in pratica da molte aziende straniere, in Italia lo hanno adottato quasi esclusivamente le imprese di dimensioni più grandi. Uno studio della School of Management del Politecnico di Milano segnala infatti come solo il 5% delle piccole e medie imprese ha avviato cambiamenti strutturali e organici per favorire lo smart working, una quota che si attesta al 17% tra le grandi imprese (in crescita rispetto all’8% del 2014). Non solo, oltre una piccola e media impresa su due ha addirittura ammesso di non conoscere nemmeno il significato del termine smart – working.
Eppure, secondo il Politecnico di Milano, permettendo di cancellare dalle spese i costi sostenuti per gli affitti, i ticket, le navette o i consumi energetici, questa modalità di lavoro consentirebbe risparmi per circa 37 miliardi di euro.

 

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