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I diversi volti della crisi in Venezuela

La crisi del Venezuela dipende in larga parte dalla crisi del petrolio, ma anche dalla miopia economica che ha caratterizzato il paese negli ultimi anni
di Fabio Germani

Nicolás-MaduroDue diapositive contrapposte. La prima, di archivio: il presidente del Venezuela e leader della rivoluzione bolivariana, Hugo Chávez, che fiero di sé si fa largo durante l’ennesimo bagno di folla. La seconda, più recente: il suo successore, Nicolás Maduro, che quasi si mette a litigare in strada con le tante persone che lo contestano, a Isla Margarita.
Visto da qui il Venezuela appare in questi giorni sottosopra. La povertà aumenta, i supermercati sono praticamente vuoti e comunque consumare tre pasti in un giorno significherebbe dissipare un intero patrimonio. L’inflazione è alle stelle, le importazioni nulle. Un dramma per un paese che da sempre importa di tutto ed esporta principalmente petrolio. Qualche settimana fa, l’opposizione – che a dicembre 2015 ha ottenuto per la prima volta in 16 anni la maggioranza al Parlamento nelle elezioni legislative – è riuscita a radunare a Caracas circa un milione di manifestanti a sostegno del referendum per la destituzione del presidente, considerato il primo responsabile del tracollo venezuelano. I guai della Repubblica bolivariana di Venezuela, però, hanno origini antiche e recenti allo stesso tempo, e rispondono ad unico problema di fondo: la miopia economica dei suoi leader.

NICOLÁS MADURO
Maduro non era l’unico aspirante delfino di Chávez, ma con l’aggravarsi della malattia – era fine 2012 – fu il Comandante in persona a designarlo suo successore. Maduro è un ex autista di autobus. Ottenne un certificato di disabilità e cominciò una carriera nel sindacato. Di qui la sua ascesa politica. A lungo ministro degli Esteri di Chávez, è stato anche vicepresidente. Il leader della rivoluzione bolivariana morì il 5 marzo 2013 e Maduro assunse la presidenza ad interim fino a nuove elezioni. Il 14 aprile superò, di pochissimo, il candidato antichavista Henrique Capriles Radonski e venne eletto presidente del Venezuela. Festeggiamenti, certo. Ma anche proteste e scontri con la polizia, a conferma di una profonda spaccatura nel paese emersa già alle urne. Ad agosto il ministro dell’Interno annunciò che le autorità venezuelane erano riuscite a sventare un complotto per assassinare Maduro. Fu accusato Álvaro Uribe Vélez, ex presidente della Colombia. Seppure indirettamente, venne persino tirato in ballo Barack Obama. Se qualcosa non gira come dovrebbe, la colpa è dell’imperialismo americano. Non si scappa: a detta di Maduro anche la recente crisi politica in Brasile è in qualche modo conseguenza delle ingerenze statunitensi. In questi giorni di proteste per la mancanza di viveri, diversi giornalisti della stampa estera sono stati respinti o espulsi.

IL PETROLIO E LA CRISI VENEZUELANA
Il petrolio come strumento per la rivoluzione di stampo socialista, il socialismo del XXI secolo. Gira tutto attorno all’oro nero, già prima di Chávez. Ma per Chávez diventò propaganda politica. Negli anni ’70 il petrolio finanziò nuovi edifici, opere importanti tra cui la metropolitana di Caracas: l’immagine, insomma, di un Venezuela che si cominciava a proiettare verso il futuro. Con la rivoluzione bolivariana – che prese avvio alla fine degli anni ’90 – le entrate aumentarono ulteriormente e il goveno chavista si rivolse allora al popolo: lavoro, sussidi, educazione, cure mediche. Molte di queste cose gratis o a costi più che accessibili. Peccato che le storture dell’economia venezuelana (lasciamo da parte, per il momento, corruzione, criminalità e burocrazia) abbiano sempre minato le prospettive di crescita millantate. Al solito: inflazione alle stelle, consumi proibitivi e, talvolta, scaffali dei supermercati vuoti. Non una novità di questi mesi, insomma. La crisi del petrolio, più o meno dal 2014, è diventata presto la crisi anche del Venezuela, il paese con le maggiori riserve al mondo. L’inflazione stimata è oltre il 700%, per la Banca centrale si attesta a livelli inferiori, ma pur sempre a tre cifre. Il Pil del Venezuela, economia già in recessione, è previsto calare quest’anno del 10%. La popolazione è stremata.

IL PETROLIO E MADURO
L’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec), di cui il Venezuela fa parte, ha trovato un accordo preliminare sull’opportunità di ridurre la produzione di greggio (oltre 700 mila barili al giorno) al fine di rialzare i prezzi, nel frattempo balzati sopra i 49 dollari subito dopo l’annuncio. Il Venezuela, che stava già estraendo petrolio a basso costo data la situazione (il greggio vale il 96% dell’export), è da tempo in difficoltà perché la PDVSA – la compagnia petrolifera nazionale – piange miseria e non è in grado di rinnovare gli impianti o aprirne di nuovi. In questo modo la produzione è diminuita rispetto ai competitor, mentre l’economia venezuelana necessiterebbe di quotazioni molto più alte per tornare a galla e sostenere i costi sociali accumulati, nonché l’importazione di beni alimentari. A questo si aggiunga l’eccessivo controllo dei prezzi e dei cambi – prerogativa dell’epoca chavista – e l’indebitamento in dollari che potrebbe, nell’estrema ipotesi di default, trascinare con sé molti paesi del Sud America (specie qualora la Fed decidesse di incrementare il processo di normalizzazione della politica monetaria). Il governo di Maduro ha invece mantenuto il cambio fisso tra bolivar e dollaro, ma le riserve internazionali si stanno esaurendo e già a breve potrebbe rallentare in maniera drastica l’afflusso di capitali dall’estero, perciò – ancora lì si va a parare – solo una decisa risalita dei prezzi del petrolio può salvare il paese. Un cane che si morde la coda.

L’IMMAGINE DEL VENEZUELA, ADESSO
Alcuni giorni fa hanno fatto scalpore – e potrebbe apparire un eufemismo – le immagini di neonati tenuti dentro scatole di cartone in un ospedale venezuelano. Non una culla o un’incubatrice, scatole di cartone. Per molti quelle immagini rappresentano l’emblema della grave emergenza umanitaria in cui versa il paese, per quanto il presidente sia abile – oggi un po’ meno e certo non quanto lo fosse a suo tempo Chávez – a nascondere le criticità. Maduro sta cercando di aggrapparsi dove può, chiedendo aiuti ovunque e prolungando lo stato di emergenza economica. Il governo le ha tentate tutte, pur di risparmiare: blackout pianificati, riduzione delle ore di lavoro per i dipendenti pubblici. Di recente Maduro ha incontrato in Colombia il segretario di Stato Usa, John Kerry, il quale ha auspicato soluzioni democratiche. Che dal punto di vista delle opposizioni significa tenere entro quest’anno il referendum destitutivo e andare presto a nuove elezioni in caso di vittoria. Ma il Consiglio nazionale elettorale (Cne) del Venezuela ha reso noto, proprio in questi giorni, che la consultazione popolare avverrà non prima del primo trimestre del 2017. Il popolo non ha i soldi per mangiare e Maduro sta facendo pressioni sulla Fao. E pensare che l’anno scorso l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura aveva pensato bene di premiarlo perché il Venezuela “è il paese che ha combattuto di più la fame nel mondo, grazie ai programmi sociali di cibo”. Il programma cui si faceva riferimento è Misión Alimentación (il cui scopo sarebbe la distribuzione diretta degli alimenti ai cittadini), in vigore dal 2003. Unico dettaglio trascurato: gli scaffali vuoti nei supermercati.

@fabiogermani

 

1 Commento per “I diversi volti della crisi in Venezuela”

  1. […] teso. Nonostante le pressioni, Maduro resta alla guida del paese, ma i problemi del Venezuela certo non sono recenti. In primo luogo è importante sottolineare come il paese stia attraversando una prolungata crisi […]

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