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Quanto costa la guerra allo Stato islamico?

Dall’agosto 2015 Washington ha speso molti soldi per cercare di sconfiggere Abu Bakr al Baghdadi e i suoi seguaci
di Mirko Spadoni

Nelle prime ore di lunedì 17 ottobre, una coalizione militare piuttosto eterogenea — ne fanno parte l’esercito iracheno, quello del Kurdistan iracheno (leggasi anche: peshmerga), alcune milizie sciite controllate dall’Iran, 1.500 combattenti iracheni addestrati dalla Turchia e le forze anti-terrorismo irachene addestrate dagli Stati Uniti — ha iniziato le operazioni per liberare Mosul, la città irachena conquistata dal gruppo terrorista dello Stato islamico (IS) nel giugno del 2014. Le cose potrebbero andare per le lunghe, però.

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Sirwan Barzani, generale dell’esercito del Kurdistan iracheno, ha detto alla CNN che la battaglia per riconquistare Mosul potrebbe richiedere due mesi: ci dovrebbero volere due settimane per entrare in città — al momento, la coalizione sta liberando le cittadine nei pressi di Mosul — e concludere così la prima fase dell’operazione, a cui ne seguirà una seconda, probabilmente più difficile.
Una volta entrato a Mosul, l’esercito iracheno dovrà vedersela con i miliziani dello Stato islamico — il Guardian ha scritto che in città ce ne dovrebbero essere tra i 5.000 e i 6.000 — , pronti ad ingaggiare una guerriglia urbana, servendosi dei tunnel sotterranei, costruiti in questi ultimi due anni, e continuando a compiere attacchi suicidi.

Alla fine del giugno scorso, Michael Schmidt e Eric Schmitt hanno scritto sul New York Times che, messo alle strette dalla coalizione a guida statunitense, lo Stato islamico sta combattendo sempre più spesso come un gruppo terrorista, preferendo alla tattica militare tradizionale la guerriglia e gli attacchi suicidi, come era solito fare prima del 2014.
Allo scontro decisivo (forse) non prenderanno parte i leader dell’organizzazione di Abu Bakr al Baghdadi: Gary Volesky, un generale dell’esercito statunitense, ha detto che i vertici dell’IS hanno lasciato la città prima dell’inizio della battaglia, lasciando ai foreign fighters l’incombenza di difendere Mosul.

PERCHÉ È IMPORTANTE MOSUL
Mosul si trova nell’Iraq settentrionale e conta 1,3 milioni di abitanti, che ne fanno il secondo centro abitato più grande del Paese e (forse) la città più importante sotto il controllo dei terroristi dell’IS. Daniele Raineri ha scritto sul Foglio che è “Mosul la vera capitale di fatto” dello Stato islamico e non Raqqa, in Siria, come spesso riportato dalla stampa. I motivi sono diversi. Innanzitutto, la dimensione — prima di cadere nelle mani dell’IS, a Raqqa ci vivevano 240mila persone — e poi i trascorsi storici: “Mosul è da sempre il centro degli interessi e dei finanziamenti dello Stato islamico”, scrive Raineri. “Il capo del gruppo, Abu Bakr al Baghdadi, prima della nomina è stato per anni emiro della zona di Mosul (almeno dal 2008)”. Ed è nella moschea più grande di Mosul che il leader dell’IS ha annunciato al mondo la nascita del suo sedicente califfato, il 29 giugno 2014 (o il primo giorno di Ramadan del 1435 per chi preferisce il calendario islamico a quello gregoriano). Una sua eventuale liberazione rappresenterebbe un grave danno per l’immagine che l’IS ha costruito di sé nel corso degli ultimi anni.
L’esito — lo Stato islamico alla fine capitolerà o no? — non è l’unica cosa incerta della battaglia per Mosul. Pur invitando a “non sopravvalutare il pericolo”, il commissario UE per l’Unione della sicurezza, Julian King, ha detto al quotidiano tedesco Die Wielt che la caduta di Mosul potrebbe “portare al ritorno in Europa” dei foreign fighters europei che negli ultimi anni si sono arruolati tra le file del sedicente califfato.

I COSTI DELLA GUERRA CONTRO L’IS
Quella contro i terroristi dello Stato islamico è una guerra iniziata da diverso tempo: il 10 settembre 2014 il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha annunciato la formazione di una “coalizione globale” per “indebolire e sconfiggere definitivamente” al Baghdadi e i suoi seguaci. All’appello hanno risposto in parecchi — il Dipartimento di Stato americano scrive che i membri della coalizione sono 66 —, anche se (naturalmente) ognuno di loro contribuisce a modo suo.

Il contributo non deve essere per forza militare, del resto: alcuni Stati hanno offerto assistenza — sotto forma di aiuti umanitari — ai Paesi o alle organizzazioni non governative (ONG) impegnate in Iraq e Siria: ad esempio, la Svizzera ha donato 9 milioni di dollari di aiuti al governo iracheno, mentre l’Italia ha contribuito inviando armi e munizioni per l’equivalente di 2,5 milioni di dollari.
L’Italia ha offerto anche 260 uomini impiegati in missioni di rifornimento in volo degli aerei oltre che di sorveglianza, intelligence e ricognizione. Insieme al personale, il governo ha inviato quattro AMX-ACOL, un Boeing KC-767A e due droni MQ-1 Predator UAVs. Dal settembre 2016 il nostro Paese ha fornito anche circa 1.500 militari che hanno il compito di addestrare e fornire consulenza alle truppe impegnate sul campo.
In realtà, le operazioni militari sono antecedenti al 10 settembre: i primi raid contro l’IS in Iraq erano stati autorizzati da Obama già l’8 agosto. Secondo i dati del Dipartimento della difesa statunitense (DOD) aggiornati al 26 giugno 2016, la coalizione ha condotto 13.470 attacchi aerei, 9.099 dei quali in Iraq, contro i miliziani dell’IS. Al 31 maggio 2016, invece, gli obiettivi distrutti sono 26.374.
Tutto questo ha un prezzo, ovviamente: secondo un report del Congressional Research Service, dall’8 agosto 2014 alla fine dello scorso giugno, gli Stati Uniti hanno sborsato 7,5 miliardi di dollari che, divisi per la durata dell’operazione, fanno 11,7 milioni di dollari al giorno.
Un mucchio di denaro che è legittimo chiedersi se sia stato speso bene o meno, analizzando ad esempio l’impatto degli attacchi condotti dalla coalizione sul loro unico obiettivo: lo Stato islamico.

QUANTO TERRITORIO HA PERSO L’IS
L’Istituto IHS Conflict Monitor sostiene che, dal gennaio del 2015, l’IS ha perso buona parte dei territori conquistati precedentemente in Siria e Iraq. Al 3 ottobre 2016, al Baghdadi e i suoi seguaci controllavano 65,5mila chilometri quadri, una superficie — tanto per farsi un’idea — equivalente alle dimensioni dello Sri Lanka. Nel 2015 il sedicente califfato aveva un’estensione di 90.800 chilometri quadri. Era poco più grande della Serbia, in pratica.

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Tuttavia, da luglio l’IS ha perso sempre meno terreno, lasciando agli avversari “solo” 2.800 chilometri quadri. L’IHS sostiene che tale rallentamento è imputabile alla riduzione dei raid aerei dell’aviazione russa.
Prima dell’inizio dell’estate i caccia di Mosca colpivano obiettivi legati all’IS nel 26% dei casi, una percentuale che è passata al 17% tra luglio, agosto e settembre.
Per quanto modeste rispetto al passato, le recenti perdite dello Stato islamico sono estremamente significative da un punto di vista strategico: i miliziani di al Baghdadi hanno perso i territori ai margini del confine turco — il che rende più difficile reclutare nuovi combattenti dall’estero — e la città siriana di Manbij, conquistata dalle milizie curdo-arabe delle Forze democratiche siriane (FDS) sostenute dagli Stati Uniti, senza la quale l’IS non può più controllare le vie di comunicazione tra Raqqa e la Turchia.

 

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