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Usa 2016. Gli Stati Uniti e il mondo: due candidati a confronto

Quali potranno essere le implicazioni del voto dell'8 novembre 2016 per la posizione degli Stati Uniti nel mondo?
di Gianluca Pastori*

Cosa può significare, per la politica estera statunitense, un successo di Hillary Clinton nelle elezioni presidenziali ormai imminenti? In particolare, quali potranno essere le implicazioni di questo successo per la posizione degli Stati Uniti nel mondo? Il favore degli osservatori è stato finora indirizzato all’ex Segretario di Stato, che nei confronti del suo rivale, Donald Trump, esprime una posizione più solida e strutturata, in parte grazie all’esperienza accumulata, in parte legate all’adesione ‘ideologica’ alle posizioni dell’‘interventismo democratico’, di casa a Washington durante l’amministrazione del marito Bill (1993-2001). Sulla base di queste considerazioni, la convinzione diffusa è che quelli di Hillary Clinton sarebbero Stati Uniti più interventisti di quelli di Donald Trump e molto più pronti a ‘spendersi’ – in termini politici e forse anche militari – per affermare una propria visione dell’ordine internazionale.

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Anche nella sfera delle relazioni con l’Europa, il candidato democratico ha ribadito più volte di ritenere centrale il rapporto incarnato nell’Alleanza Atlantica; un rapporto che il rivale repubblicano ha definito in varie occasioni ‘obsoleto’. Al di là delle dichiarazioni di principio, tuttavia, è difficile che quello di Hillary Clinton possa essere l’atlantismo ‘da guerra fredda’ che una parte dell’Europa si attende. Nel corso degli anni (e con più evidenza in quelli dell’amministrazione Obama), lo scarto fra le percezioni di sicurezza di Washington e dei suoi alleati sull’altra sponda dell’Atlantico si è molto approfondito, come la stessa Clinton ha avuto modo di sperimentare nei mesi della crisi libica. Se, in questa prospettiva, il deteriorarsi della relazioni con la Russia potrà fungere dal collante per il rapporto transatlantico, difficilmente esso potrà fare convergere sulle posizioni di Washington le priorità e gli interessi di un’Europa profondamente divisa al suo interno.

È comunque rispetto al tema delle relazioni con il mondo dell’Asia e del Pacifico che un eventuale successo di Hillary Clinton appare destinato ad avere le ripercussioni più forti. Negli anni passati alla Segreteria di Stato, il candidato democratico è quello che più ha concorso a strutturare la politica del ‘pivot to Asia’ e ad imprimere a questo la sfumatura anti-cinese che Obama, negli anni successivi, ha contribuito a smussare. Il raffreddamento di Hillary Clinton verso il tema dell’integrazione economica è un altro aspetto che, in questo campo, occorre tenere presente. Già attiva fautrice dell’accordo TPP (Trans-Pacific Partnership), durante la campagna elettorale il candidato democratico ha assunto nei suoi confronti accenti sempre più critici, soprattutto per gli impatti che esso avrebbe avuto sull’economia e i tassi di occupazione statunitensi, seguendo in ciò la strada aperta – con argomenti più o meno simili – sia dal suo rivale alla nomination, Bernie Sanders, sia, sul fronte repubblicano, da Donald Trump.

Ipotizzare le linee di politica estera di un’eventuale amministrazione Trump è, invece, più difficile. Nel complesso, le dichiarazioni del candidato repubblicano concorrono a delineare il profilo di Stati Uniti più chiusi rispetto a quelli tratteggiati dalla sua rivale; Stati Uniti, cioè, per quanto la cosa possa apparire paradossale, più in linea con quella che è stata sinora la linea seguita dall’amministrazione Obama. La strategia di dialogo proposta da Trump nei confronti della Russia (strategia che gli è valsa l’accusa di essere in qualche modo al soldo del Cremlino) ricorda per molti aspetti la logica del ‘reset’ con cui l’attuale inquilino della Casa Bianca si proponeva, a suo tempo, di ricucire i rapporti con Mosca, entrati in crisi dopo lo scoppio del conflitto georgiano, nell’agosto 2008. Lo stesso vale per il maggiore peso che – in linea di principio – la piattaforma del candidato repubblicano assegna alla politica interna rispetto a quella internazionale.

Questa postura ‘ripiegata’ è il tratto che più differenzia il candidato Trump dalla linea di un partito che soprattutto dopo i fatti dell’11 settembre ha fatto del ‘discorso securitario’ una delle sue colonne portanti. Essa anche è il tratto che solleva più riserve fra gli alleati storici di Washington. Oltre che in Europa (dove l’eventualità di un disimpegno USA ha sollevato i timori soprattutto degli ex membri del Patto di Varsavia), le parole di Trump riguardo alla necessità di ripensare ai costi dell’attuale esposizione internazionale degli Stati Uniti, hanno innescato reazioni preoccupate in Giappone e in Corea del Sud, Paesi che condividono i timori legati alle crescenti ambizioni regionali della Cina popolare e alla strategia nucleare apparentemente fuori controllo della Corea del Nord, e che nella politica del ‘pivot to Asia’ (soprattutto nella sua declinazione clintoniana) speravano di trovare una riaffermazione del loro rapporto privilegiato con Washington.

Osservazioni simili possono essere ripetute riguardo al Medio Oriente, regione in cui le scelte compiute dall’amministrazione Obama sono state fatte oggetto di pesanti critiche. Anche in questa regione, l’atteggiamento chiaramente interventista di Hillary Clinton si scontra con la posizione più attendista del suo rivale. In questo senso, il Medio Oriente rappresenta, per più aspetti, la chiave di volta della politica estera statunitense. Sebbene la regione in sé stia progressivamente perdendo d’importanza rispetto ad altre aree dello scacchiere globale (prima fra tutto la regione dell’Asia-Pacifico), in essa si concentrano, infatti, ancora numerose issues dall’elevato valore simbolico. Dal rapporto con l’Iran a quello con Israele, passando per la crisi siriana e le sue implicazioni sulle relazioni con Russia e Turchia, il teatro mediorientale costituisce forse quello in cui con più chiarezza si manifesta la diversità dell’approccio dei due candidati alla presidenza. Una diversità che, al di là degli effetti che potrà avere sul risultato elettorale, impronterà di sé l’azione internazionale di Washington nei quattro anni a venire.

*Professore associato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.

Le puntate precedenti:
Usa 2016. Il mercato del lavoro sotto Obama
Usa 2016. Il mailgate, in breve e dall’inizio
Usa 2016. I primi cento giorni di Trump e Clinton
Usa 2016. “Vi spiego il fenomeno Trump”
Usa 2016. La cultura hip hop negli anni di Obama

 

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