Davvero viviamo nell’era della post-verità? | T-Mag | il magazine di Tecnè

Davvero viviamo nell’era della post-verità?

Dalla Brexit a Trump, quanto le emozioni condizionano più dei fatti le nostre scelte? T-Mag lo ha chiesto a Lorenzo Montali, professore di Psicologia sociale all'Università Bicocca di Milano
di Fabio Germani

È davvero l’epoca della “post-verità” in cui le emozioni prevalgono sui fatti? Quelle stesse emozioni che ci inducono a credere a notizie che in seguito si riveleranno false, ma che nel frattempo avranno ottenuto una vasta diffusione. Oppure che ci spingono a votare sulla base di convinzioni anche in questo caso artefatte da una propaganda a dir poco disinvolta. Post-verità: un adattamento dell’inglese post-truth, che gli Oxford Dictionaries hanno eletto parola dell’anno 2016. Se ne parla da tempo, ma il dibattito si è acceso soprattutto dopo il referendum sulla Brexit e l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti, eventi – si è detto a lungo – favoriti da uno smodato ricorso ad una retorica densa di emozioni, spesso contrastanti, in grado di amplificare ansia e timori su determinati argomenti durante le campagne elettorali. La post-verità può così scombussolare tutti gli schemi, alterando la veridicità di sondaggi e rilevazioni. Come accaduto con Trump, prima del voto di novembre. “La questione è ovviamente complessa”, ci corregge però Lorenzo Montali, professore di Psicologia sociale all’Università Bicocca di Milano. “In termini generali – prosegue Montali nel suo colloquio con T-Mag –, in psicologia sociale si conosce da molti anni il fenomeno della desiderabilità sociale, che porta chi risponde a nascondere il proprio pensiero se ritiene che questo sia poco apprezzato, cioè socialmente indesiderabile. È possibile che questo abbia portato una parte degli elettori di Trump a nascondere le proprie reali intenzioni, o a sottrarsi dal rispondere ai sondaggi, se pensava di votare per un candidato poco presentabile, dato che una parte rilevante dei mass-media ha fortemente insistito su questa rappresentazione del personaggio”. Montali ricorda che la candidata democratica, Hillary Clinton, ha vinto nel voto popolare (tra i due pretendenti alla Casa Bianca c’è stato uno scarto di circa due milioni di preferenze), motivo per cui “i sondaggi che la davano vincente hanno sostanzialmente identificato il trend prevalente, per quanto possano aver sbagliato le dimensioni”.

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Anche la diffusione di false notizie non è un fenomeno nuovo, sottolinea il professore: “Lo storico Marc Bloch scrisse un libro che si intitolava La guerra e le false notizie già nel 1914, osservando quante falsità circolassero in tempo di guerra, grazie al passaparola tra persone che le consideravano notizie vere. Le cosiddette piazze virtuali hanno amplificato la velocità di diffusione di queste false notizie che ora non circolano più solo attraverso il passaparola, un medium lento se confrontato con la velocità che può essere garantita dalla comunicazione elettronica. Allo stesso tempo però, Internet è il mezzo attraverso cui si diffondono, anche in questo caso molto velocemente, le smentite di queste false notizie. E questo perché la mobilitazione delle competenze degli utenti garantisce un sistema di controllo e la successiva propagazione delle smentite, analogamente a quanto avviene con le false notizie. Il punto è che le false notizie, e le loro smentite, tendono a circolare all’interno di cerchie che sono tra loro poco permeabili. E così chi crede a una falsa notizia tenderà a non sapere della smentita o a squalificarla come poco credibile perché questa non è sostenuta nella sua cerchia di amici o perché contrasta con ciò che quella cerchia considera vero o giusto. Il punto è infatti che nessuno di noi valuta un’informazione in quanto tale, ma cerca sempre di determinarne il valore di verità in relazione ad altri fattori: credenze preesistenti, ideologie, valore attribuito alla fonte o il supporto sociale che l’informazione riceve da parte di persone di cui mi fido…”.

Indagando sull’argomento, il Pew Research Center ha osservato che più della metà degli intervistati giudica le interazioni con utenti che la pensano diversamente “frustranti” e “stressanti”. È molto probabile che un’indagine analoga in Italia darebbe un risultato pressoché simile. Qual è il peso dei luoghi virtuali dove avvengono le interazioni? Si discuterebbe – di questioni politiche o altro – alla stessa maniera dal vivo, o le piazze virtuali contribuiscono all’inasprimento dei toni?
Molte ricerche mostrano che la discussione nelle piazze virtuali è solitamente più accesa di quanto non avvenga dal vivo. Ci sono molte caratteristiche del virtuale che possono spiegare questa sorta di disinibizione, come il fatto che posso trovarmi ad interagire con persone con cui non ho una relazione preesistente da preservare o che la discussione per iscritto, che non consente di cogliere altri segnali circa il significato che il parlante vuole trasmettere, può indurre più facilmente in equivoco, come chiunque di noi può aver sperimentato. Va anche considerato che, in certi contesti specifici, per esempio quelli di lavoro, altre caratteristiche dello strumento possono portare ad avere discussioni più proficue di quelle che si avrebbero se ci si trovasse dal vivo per parlare. Per esempio è possibile arrivare a decisioni più rapide e maggiormente centrate sulla qualità degli argomenti che vengono portati o dei dati che le persone producono a supporto delle proprie tesi, perché la forma scritta può agevolare la messa in atto di processi riflessivi migliori, se appunto il contesto è quello di un gruppo che si dà l’obiettivo di arrivare ad un esito proficuo. Quindi il mezzo ci mostra la possibile attivazione di dinamiche di discussione nuove, alcune negative e altre positive.

Spesso sono i media ad alzare i toni della discussione. Molti giornali, con una ormai presenza consolidata online, non aiutano sempre a comprendere meglio un fatto, anzi talvolta lasciano molti dubbi. Per non parlare di quei siti specializzati a diffondere notizie false o eccessive pur di generare traffico. Che tipo di rapporto possiamo allora osservare? I media hanno compreso il “mood” e lo alimentano, o siamo noi utenti ad avere smarrito una certa capacità di discernimento al cospetto di una mole di informazioni senza precedenti?
Mi pare ci siano due diverse questioni. Partiamo dalla prima. Non credo che sia il digitale ad aver cambiato i toni dei media, che da sempre possono essere ‘urlati’ quando una testata vuole attirare l’attenzione. Detto ciò, il rapporto tra i media e l’opinione pubblica – o meglio, i diversi seguiti che la compongono e che non vanno certo tutti nella stessa direzione – sono da sempre di reciproca influenza. I media costruiscono le notizie sulla base di quelli che pensano siano gli interessi dei destinatari e le tarano sulla base delle risposte che ricevono, il pubblico a sua volta è variamente influenzato dalle notizie che legge o sente. Ovviamente questo non vuol dire che i singoli attori del sistema abbiano lo stesso potere. Una notizia o un commento che esce su Repubblica si diffonde più velocemente e raggiunge più persone di quanto non accada alla notizia o al commento pubblicati da un utente di Facebook sulla propria bacheca. Ma se immaginassimo che l’influenza è solo top-down, dai media ai cittadini, commetteremmo un errore.

La seconda questione?
È certamente vero che la quantità di informazioni che ognuno di noi si trova a ricevere è enorme, sostanzialmente ingestibile se ci aspettiamo che le persone le valutino accuratamente una per una. Quindi ciascuno di noi utilizza dei meccanismi di selezione, che ci possono portare a fare degli errori, ma ci consentono di costruirci una rappresentazione sufficientemente gestibile della realtà che ci interessa. Perché le persone arrivino ad approfondire o a vagliare la qualità delle informazioni ricevute è necessario che abbiano le competenze per farlo, e spesso questo è molto difficile se non si è esperti in un certo ambito, penso per esempio alle notizie di scienza, e che siano realmente interessate a quello specifico tema o notizia. Quando questo avviene, allora le persone si mobilitano, attivano le loro risorse e magari scoprono che le cose erano in tutto o in parte diverse da come erano state loro raccontate.

Torniamo alla post-verità. Non si starà esagerando nella sua narrazione? La propaganda politica non applica da sempre i medesimi processi cognitivi, da prima cioè dell’avvento dei social media?
È vero che le menzogne, le mezze verità o le teorie complottiste sono da sempre parte della comunicazione umana e in questo senso il fenomeno non è nuovo. Quel che lo caratterizza nella contemporaneità sembra essere la crisi di credibilità delle autorità tradizionali, che in questo senso non sembrano più riuscire ad offrire un argine alla diffusione di alcune false notizie, almeno in certi contesti. Per esempio nell’ambito della medicina, il parere della comunità scientifica circa l’utilità dei vaccini nel prevenire le malattie sembra stentare ad imporsi in fasce crescenti dell’opinione pubblica, non perché manchino dei dati che supportino questa posizione, ma perché per una quota dell’opinione pubblica quella fonte, una volta considerata un’autorità in quel campo, appare almeno in parte screditata. Ecco allora che il valore dei fatti, che pure è un principio a cui appare pienamente sensato continuare a richiamarsi, si indebolisce se viene meno la fiducia nei confronti di chi dovrebbe verificare quei fatti, stante che in una società complessa come la nostra, la verifica dei fatti non è a disposizione dei singoli cittadini per quanto ben informati.

Alla luce di tutte le considerazioni fatte, di quali strumenti possono disporre i cittadini per evitare le trappole del clickbait e distinguere i fatti dalle pure invenzioni?
Dobbiamo sviluppare, in primo luogo a scuola, una nuova educazione nella fruizione dei media, che parta dalla consapevolezza che nessuno ha la competenza e la motivazione sufficienti per verificare la validità dell’enorme quantità di informazioni che riceviamo. Questa nuova educazione si deve fondare in primo luogo sul riconoscimento dei nostri limiti, che sono appunto cognitivi e di motivazione, nel valutare la qualità di una notizia, il che ci deve rendere meno sicuri di quanto talvolta siamo dei convincimenti che maturiamo. Questa è la precondizione affinché le persone sviluppino una certa consapevolezza del rischio di credere alle false notizie e quindi siano disponibili a valutare criticamente ciò che sentono o leggono.
In secondo luogo dobbiamo sviluppare una competenza metodologica, che ci renda capaci di comprendere la qualità delle affermazioni o notizie in cui ci imbattiamo. Un principio base di questa competenza è che chi fa un’affermazione ha anche l’onere di portare dei fatti a supporto di quanto sostiene. Da parte nostra dobbiamo invece dotarci di strumenti che ci consentano di valutare la qualità dei fatti che ci vengono presentati. Per esempio, dobbiamo chiederci se le fonti sono esperte in relazione alla questione di cui parlano, se sostengono un parere condiviso nella loro comunità di riferimento, se i dati che presentano sono stati valutati anche da persone indipendenti. È evidente che questi sono solo alcuni degli elementi e che non possiamo esaurirli nello spazio limitato di una intervista, ma credo che diano a chi ci legge il senso di un percorso possibile se si vuole affrontare la questione, senza inutili allarmismi e allo stesso tempo con la consapevolezza della sua importanza.

@fabiogermani

 

1 Commento per “Davvero viviamo nell’era della post-verità?”

  1. […] sociale (Nicoletta Cavazza dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e Lorenzo Montali dell’Università Bicocca di […]

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