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Come cambia il mondo del lavoro

Dal posto fisso alla gig economy, dagli Stati Uniti all'Europa. Mutano i processi produttivi e con essi lo scenario lavorativo
di Fabio Germani

Parlando all’Università di Baltimora e rivolgendosi direttamente agli studenti, la presidente della Federal Reserve, Janet Yellen, ha detto: “Dopo anni di ripresa economica debole state entrando nel mercato del lavoro più robusto da quasi un decennio”. In effetti il mercato del lavoro statunitense è in netta ripresa. Negli anni di amministrazione Obama gli Stati Uniti sono riusciti a recuperare i livelli pre-crisi, con un tasso di disoccupazione che si attesta ora al di sotto del 5% (4,6% a novembre). L’andamento, così positivo, ha spinto pochi giorni fa la Fed ad alzare i tassi di interesse, come era nelle attese, di un quarto di punto, allo 0,50-0,75%, proseguendo nel processo di normalizzazione della politica monetaria, seppure a singhiozzo. Il punto adesso è capire quanto davvero il mercato del lavoro statunitense sia “robusto”. Il tasso di disoccupazione, per quanto basso, non è l’unico elemento da tenere sott’occhio. Gli indicatori cosiddetti “accessori” mostrano tanto di più. Perché è importante analizzare i dati, ma osservare la qualità del lavoro lo è altrettanto.

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Da tempo l’America sta attraversando una fase almeno in apparenza paradossale: alla diminuzione del tasso di disoccupazione non corrisponde una massiccia partecipazione. Il primo indicatore “misura” quanti sono alla ricerca attiva di un impiego, pur non trovandolo. Il secondo – il tasso di partecipazione alla forza lavoro, ovvero il rapporto tra forza lavoro (occupati e disoccupati in cerca di impiego) e popolazione – ha evidenziato una discesa che va avanti dal 2010 e che a un certo punto ha raggiunto i minimi da oltre 40 anni (al 62,4%). Un valore che si è mantenuto pressoché stabile, ancora negli ultimi mesi. A cosa poteva fare riferimento, allora, Janet Yellen? Facciamo un passo indietro: la numero uno della banca centrale statunitense ha parlato agli studenti dell’Università di Baltimora, ragazze e ragazzi che – si presume – svolgeranno in futuro lavori e mansioni altamente qualificate. Yellen stessa ha ricordato come gli stipendi dei laureati siano oggi superiori del 70% rispetto a quelli dei coetanei che hanno interrotto prima gli studi. Nel 1980 il differenziale era di appena 20 punti percentuali.

UN MERCATO DEL LAVORO DUALE?
In generale chi un lavoro ce l’ha, negli Stati Uniti, si dice sicuro del proprio posto. Ma una recente indagine del Pew Research Center – utile in alcuni spunti perché spiega molto anche di noi europei – fa emergere che tale condizione riguarda soprattutto i lavoratori più qualificati. Chi presenta un minore grado di istruzione o competenze ammette di non essere tanto certo della sicurezza del suo lavoro. In pratica chi presenta bassi livelli di istruzione ha più probabilità di essere precario o addirittura di non averlo proprio, un lavoro. È probabile inoltre che le competenze non siano sufficienti per un avanzamento di carriera e anzi si temono ulteriori demansionamenti, se non sostituzioni – a favore di macchine o persone più qualificate – in un contesto di processi produttivi sempre più affidati all’innovazione tecnologica. In generale, insomma, i lavoratori percepiscono un aumento della concorrenza che proviene da diverse parti, ma chi possiede i requisiti per stare al passo con i tempi non ha paura di subire ripercussioni chissà quanto negative (basti pensare che più della metà degli intervistati ritiene il proprio tenore di vita migliore rispetto a quello dei genitori, anni prima). Sembra quasi superfluo osservare che dei cambiamenti del mercato del lavoro, alcuni hanno beneficiato più di altri. A partire dai compensi che sono aumentati, per quei lavoratori cui vengono richiesti standard elevati di “abilità sociali” e analisi, in quota superiore rispetto a chi svolge mansioni “fisiche”. Un aspetto che contribuisce alla crescente diseguaglianza salariale tra quanti sono in possesso di un titolo universitario e quanti ne sono sprovvisti. Hanno giovato del nuovo scenario soprattutto le donne – se non altro per una maggiore predisposizione a un certo tipo di lavori anziché altri –, che hanno visto restringere, ma certo non ancora azzerare (a parità di condizioni la bilancia continua a pendere a favore della componente maschile), il divario retributivo nel periodo 1980-2015. Nel complesso i lavoratori americani non hanno ricevuto aumenti consistenti nei salari nel periodo compreso tra il 1980 e il 2015. Per gli uomini in molti casi sono addirittura calati e in generale i lavoratori a quattro anni dalla laurea e quelli più anziani se la cavano meglio.
Dal 1990 al 2015 l’occupazione è raddoppiata nei servizi educativi e nella sanità e assistenza sociale (questo anche a causa dell’invecchiamento della popolazione che ha fatto lievitare la domanda), in crescita rispettivamente del 105% e del 99%. L’incremento occupazionale è stato altrettanto evidente nei servizi professionali e di business (81%).

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DIFFERERENZE GENERAZIONALI
Con la crisi si sono persi numerosi posti di lavoro, ma come abbiamo già visto c’è stato negli ultimi anni un forte recupero. Il tasso di occupazione negli Stati Uniti è relativamente stabile dal 1980. Ha toccato il picco al 64% nel 2000 per poi tornare al livello del 1980 (59%) nel 2015. Il calo del tasso di occupazione dal 2000 è dovuto in parte all’invecchiamento della forza lavoro e in parte alla recessione degli anni 2007-2009, che ha provocato una contrazione dal 63% del 2007 al 58% del 2011. Nonostante il tasso di occupazione complessivo sia attualmente lo stesso del 1980, ci sono alcune differenze che coinvolgono i diversi gruppi di età. I più giovani oggi hanno molte meno possibilità di essere al lavoro di quante ne avessero nel 1980 mentre quelli più anziani stanno lavorando di più. Molto dipende dalle scelte fatte prima di entrare nel mercato del lavoro, di rendersi cioè “occupabili”. Nella fascia di età 16-24 anni, poco meno della metà dei giovani (46%) erano occupati nel 2015, nel 2000 la percentuale si attestava al 57%. La tendenza può essere spiegata con il fatto che una quota maggiore di giovani sono iscritti al college, circostanza che ritarda il loro ingresso nel mondo del lavoro.

STIPENDI STABILI, MA SI LAVORA DI PIÙ
I guadagni sono aumentati in misura modesta (e tante sono le variabili che concorrono ad un incremento di stipendio), ma in compenso gli americani sono impiegati più tempo nel lavoro oggi di quanto avvenisse nel 1980. La crescita media è di quasi quattro settimane in più di lavoro all’anno: da 43 settimane nel 1980 si è passati a 46,8 settimane nel 2015. La durata media di una settimana lavorativa, anche, è aumentata a 38,7 ore nel 2015 (dalle 38,1 ore nel 1980). Nel complesso, specifica il Pew Research Center, il trend è pari ad un ulteriore mese di lavoro.

LA GIG ECONOMY: UN’ILLUSIONE?
Nel 2015 quote inferiori di lavoratori riescono ad accedere ai trattamenti pensionistici o per la salute rispetto al 1980. Perché? Al solito la crisi ha influito, in un modo o nell’altro. Molte persone, infatti, sono dedite oggi alle modalità di lavoro alternative, come ad esempio quelli a chiamata, per ovviare gli ostacoli di un duraturo stato di disoccupazione. È la gig economy, un nuovo modello economico on demand (spesso tramite l’ausilio di piattaforme online), caratterizzato da saltuarietà e prestazioni lavorative svolte da chi è disponibile sul momento. In questi anni il numero di lavoratori alternativi (scarse tutele, retribuzioni non sempre adeguate) è cresciuto di molto – in termini di milioni –, al 15,8% nel 2015 dal 10,7% del 2005, valore – all’epoca – non ancora distante dal 10% del 1995. La crescita del lavoro autonomo, anche se in forme oggi più innovative, non deve illudere troppo perché il tasso di lavoro autonomo è allo stesso tempo in diminuzione nel 2015 sul 1980 a causa della flessione dei lavoratori che non sono riusciti a integrare le loro attività.

I FATTORI ESTERNI (E TRUMP)
Crisi a parte, quali altri fattori possono avere influenzato la crisi occupazionale? Secondo l’indagine condotta dal Pew Research Center, gli americani considerano soprattutto l’outsourcing e le importazioni quali “elementi di disturbo” per il lavoro. Mentre internet, la posta elettronica e la tecnologia in generale (e le esportazioni) sono strumenti che sostengono i lavoratori. Sono temi di stretta attualità, ricordando le posizioni in materia economica, già espresse in campagna elettorale, del presidente eletto Donald Trump. Per quest’ultimo è opportuno ridurre in maniera decisa le tasse alle imprese, piccole e grandi, per garantire livelli occupazionali soddisfacenti. In aggiunta – cavallo di battaglia della sua campagna – è fondamentale rivedere gli accordi commerciali che vanno a scapito delle imprese statunitensi, impedendo o limitando la perdita di posti di lavoro. E poi i flussi migratori, altro tema scottante. Nel totale circa il 45% degli americani ritiene che il numero crescente di immigrati che lavorano negli Stati Uniti abbia recato danni ai lavoratori in generale, il 42% è convinto del contrario. Nel 2006 erano di più quelli che consideravano negativo l’impatto dei lavoratori stranieri. Naturalmente le divisioni politiche hanno un peso sull’argomento. Due terzi dei repubblicani (il 67%) dicono che gli immigrati che lavorano negli Stati Uniti sono un male per tutti gli altri, mentre solo il 30% dei democratici è d’accordo con questa valutazione. Circa sei su dieci democratici (il 58%) sono di vedute opposte. Gli elettori indipendenti mostrano invece una spaccatura: il 45% dà un giudizio negativo, il 40% positivo. Tuttavia è bene precisare che le opinioni dei democratici si sono ammorbidite rispetto a dieci anni fa, quando erano complessivamente più severe. Che il mondo del lavoro sia comunque in trasformazione è ormai un dato consolidato e la fase di transizione è veicolata da fattori – alla detta di molti – quali la globalizzazione, l’outsourcing di posti di lavoro e la tecnologia (digitalizzazione, evoluzione dei processi produttivi…).

COSA C’È IN COMUNE CON L’UE E CON L’ITALIA
Tolto l’impianto delle regole che caratterizzano i rispettivi mercati del lavoro, i punti di contatto sono diversi. Il lavoro, o il semplice approccio al lavoro, muta negli Stati Uniti come in Europa. Dall’ultimo rapporto su occupazione e sviluppi sociali – Employment and Social Developments in Europe (Esde) – della Commissione Europea emerge come quest’anno siano stati creati circa tre milioni di posti di lavoro nell’Ue, la maggior parte dei quali a tempo indeterminato. In questo modo l’occupazione è aumentata, su valori record, di 232 milioni di posti. Ed è proprio questo aspetto a contribuire ad una diminuzione della povertà: la percentuale della popolazione dell’Ue a rischio di povertà o di esclusione sociale (pari al 23,7%) è la più bassa degli ultimi cinque anni, ma sono da segnalare residui sparsi per l’intero territorio. Quello è infatti il dato medio, mentre l’Italia – ad esempio – presenta una soglia superiore, al 28,7%.
L’8,3% dei cittadini europei è però disoccupato (ottobre 2016) e in tre anni solo un disoccupato su otto è riuscito a ottenere un impiego stabile a tempo pieno. In più preoccupa sempre l’annosa questione della disoccupazione giovanile, che si attesta su livelli oltre il 20%. Il rapporto si concentra anche su altri aspetti: si passa dall’integrazione dei rifugiati, spesso alle prese con difficoltà linguistiche e necessità di sviluppare conoscenze (per cui si richiede un maggiore sforzo in termini di investimenti) alla digitalizzazione dell’economia, che muta lo scenario lavorativo. In questo caso c’è bisogno di incrementare le competenze in quanto molti dei posti disponibili restano vacanti per mancanza di requisiti, mentre segmenti quali l’economia on demand o la sharing economy rappresentano nuove forme di opportunità, a patto che si adottino politiche sociali in grado di sostenere chi ricorre al lavoro alternativo.

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Si prevede un forte invecchiamento della forza lavoro nei prossimi 20 anni (in maniera meno marcata negli Stati Uniti), possibilità che preoccupa non poco il Fondo monetario internazionale perché rappresenterà un freno alla crescita della produttività con inevitabili ripercussioni negative sull’economia. La questione è molto dibattuta. Già alcuni studi della Commissione europea hanno messo in luce come in futuro le persone anziane (65 anni o più) potrebbero aumentare a causa di diversi trend – quali fertilità, aspettative di vita, flussi migratori – che avranno un impatto sul sistema economico, in termini di forza lavoro e costi sociali (welfare, previdenza, salute), ma soprattutto in termini di ricchezza non generata. Non è condizione che interessa tutti i paesi europei, la Germania ad esempio non dovrebbe subire particolari contraccolpi in questo senso. Ma Italia, Spagna, Portogallo e Grecia potranno risentirne più di altri. Nel caso dell’Italia un’ulteriore perdita di produttività potrebbe valere circa un terzo della crescita potenziale (più o meno l’1%). Tale decremento porterebbe in dote una minore competitività, danneggiando l’economia perché chi non trova occupazione non riesce a sviluppare capacità e il rischio che si corre nel lungo periodo è quello di dissipare capitale umano. Secondo gli economisti del Fmi, un incremento di cinque punti percentuali della quota di lavoratori tra i 55 e i 64 anni può incidere su un calo della produttività del lavoro pari al 3%. E c’è da considerare anche che la produttività totale dei fattori – che, come spiega l’Istat, misura la crescita del valore aggiunto attribuibile al progresso tecnico, a miglioramenti nella conoscenza e nell’efficienza dei processi produttivi – può, in un caso analogo, registrare una diminuzione tra il 2 e il 4%.

@fabiogermani

 

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