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Perché il voto in Germania conta per l’Europa

Non solo perché Berlino è la locomotiva del Vecchio continente: stavolta c'è in ballo molto di più
di Fabio Germani

Se delle elezioni in Germania (si vota domenica 24 settembre) alla fine si è parlato meno di quanto avvenuto nei precedenti appuntamenti – quello francese in testa – è perché dall’altra parte della barricata non è candidato un antieuropeista che vuole chiudere le frontiere con tanti saluti ai simpatizzanti di Schengen o che vuole dire addio alla moneta unica, un o una “Le Pen” in salsa tedesca per dirla altrimenti. No: dall’altra parte della barricata è candidato Martin Schulz, un uomo delle istituzioni comunitarie, lui che del Parlamento europeo è stato presidente fino a poco tempo fa. Una campagna elettorale senza particolari colpi di scena, da questo punto di vista. Il massimo che ci si potrebbe aspettare, sforzandosi di immaginare una vittoria dei socialdemocratici – difficilissimo come vedremo tra poco –, è un approccio diverso alle politiche economiche di Berlino (più morbide? più aspre?), ma da una posizione pur sempre fortemente europeista.


By Kleinschmidt / MSC, CC BY 3.0 de, Link

La Germania non è esente da pericoli di estremismo diffuso. Lo dicono i sondaggi: la destra populista dell’Afd al momento si attesta attorno al 12%, il terzo partito tedesco. Ma il voto di domenica dovrebbe essere al riparo da qualsiasi sorpresa: a conquistare la maggioranza relativa sarà la Cdu-Csu di Angela Merkel. Al partito della cancelliera dovrebbe andare circa il 35-37% dei favori, mentre la Spd di Schulz è ferma al 20%. Se davvero così dovessero andare le cose, per i socialdemocratici sarebbe il peggior risultato di sempre.

Uno dei paradossi di questo scenario è che ora a molti osservatori europei va bene così. Merkel incarnerebbe, dopo il sospiro di sollievo per la vittoria di Macron in Francia, l’ultimo baluardo a difesa del Vecchio continente da ogni deriva populista osservata in questi anni, quando a lungo era stata identificata tra gli artefici della contrazione economica in Europa – mentre la Germania beneficiava delle sue esportazioni e accumulava surplus commerciale – in quanto sostenitrice delle politiche rigoriste nonché “regista” durante la fase più acuta della crisi ellenica. Le condizioni, oggi, sembrano essere cambiate. L’Europa, seppur cagionevole, gode di una migliore salute e persino la Grecia è in ripresa. Non possiamo dimenticare le recenti posizioni della cancelliera sull’UE a più velocità allo scopo di non interrompere la costruzione dell’ideale europeo.

Il 24 settembre è perciò un passaggio importante. Dare per certa la vittoria di Merkel non significa però essere in grado di prevedere che tipo di governo riuscirà a formare. Il sistema elettorale tedesco, che di base è un proporzionale, non può fornire ora gli strumenti utili a capire la prossima composizione dell’esecutivo, che più di una qualche influenza eserciterà sul modello di Europa che si intenderà adottare (nella Spd, per rendere l’idea, è aperto il dibattito se stare al governo o all’opposizione). Non a caso il discorso programmatico di Jean-Claude Juncker, durante l’annuale intervento sullo stato dell’Unione al Parlamento di Strasburgo, verrà sviluppato solo dopo il voto in Germania. L’obiettivo è rilanciare l’UE – attraverso figure istituzionali che, nelle intenzioni, assicurino una maggiore integrazione, dal superministro delle Finanze per l’Eurozona all’unificazione delle cariche per il presidente della Commissione e il presidente del Consiglio, passando per il processo decisionale su alcune specifiche materie (politica estera, fisco, difesa, giustizia e terrorismo) non più all’unanimità bensì a maggioranza qualificata –, ma a quale prezzo? In che modo Bruxelles e la – si presume – rinnovata cabina di regia franco-tedesca riusciranno a colmare le ataviche distanze periferia/centro e a superare le resistenze (legittime) di chi, tra i Ventisette ormai, teme la perdita di porzioni importanti della propria sovranità?

Rilanciare il modello europeo è tuttavia un traguardo fondamentale, molto più in un periodo di potenziali secessioni – si scrive in questo modo, si legge Catalogna – e uscite già stabilite da precedenti referendum – stavolta si legge Brexit –, senza dimenticare il cortocircuito innescato o che potrà innescare nell’immediato futuro. Altro argomento delicato (e spigoloso) è quello relativo ai flussi migratori. Merkel si è fatta portavoce nel 2015 di una vasta operazione umanitaria aprendo le porte del paese a circa un milione di rifugiati in fuga da luoghi martoriati come lo sono la Siria e l’Iraq, non senza ricevere attacchi o critiche al riguardo. Ma il problema è tanto più ampio e percepito nei singoli Stati UE in maniera diversa, a seconda della collocazione geografica, ragione tanto più vera per quelli affacciati sul Mediterraneo, ultimo tratto di rotta per chi giunge dal continente africano. Inutile starlo a sottolineare, ma è uno degli aspetti che interessa da vicino l’Italia, dove si voterà nel 2018. Le prossime mosse in questa direzione dovrebbero riguardare le modifiche al regolamento di Dublino, per cui si richiede una maggiore partecipazione nella distribuzione dei richiedenti asilo e che le responsabilità non siano appannaggio di pochi – gli stessi – paesi. Cosa potrà (o non potrà) fare la Germania? Come Angela Merkel e il suo nuovo governo riusciranno a fare sintesi di tutto questo (dopo che in patria la cancelliera ha già dato risposte importanti tipo l’introduzione del salario minimo o la volontà di scaricare anzitempo il Ttip, ottenendo consensi trasversali) sarà tema centrale dell’agenda politica comunitaria nelle settimane successive al voto.

@fabiogermani

 

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