L’importanza del lavoro familiare (spesso non capito) | T-Mag | il magazine di Tecnè

L’importanza del lavoro familiare (spesso non capito)

Si registrano i primi passi verso un riconoscimento formale di chi svolge lavori familiari h24, come l'assistenza a persone non autosufficienti. Ma si continua a "discriminare" le mamme. E i dati sono impietosi
di Silvia Capone

Alcuni emendamenti alla manovra 2018 introducono lo stanziamento di un Fondo per il sostegno del caregiver, definito come «la persona che assiste e si prende cura del coniuge, di una delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto, di un familiare o di un affine entro il secondo grado, anche di un familiare entro il terzo grado, che a causa di malattia, infermità o disabilità, anche croniche o degenerative, non sia autosufficiente e in grado di prendersi cura di sé, sia riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata, o sia titolare di indennità di accompagnamento». Il Fondo prevede una copertura di 60 milioni complessivi, 20 l’anno, per il triennio 2018-2020.
L’emendamento arriva in risposta dopo lunghe attese e dibattiti sul quella che è ormai diventata una necessità, retribuire, e quindi riconoscere come tale, il lavoro di quelle perone, in maggioranza donne che “scelgono” di dedicarsi all’assistenza di familiari anziani o di non autosufficienti. La cura comporta un’attenzione costante, 24h al giorno tutti i giorni, quindi implica anche la rinuncia ad un lavoro nel senso stretto, quindi retribuito e professionalizzato.

La misura risulta un primo passo, comunque opportuno, in un paese come l’Italia in cui l’assistenza ai non autosufficienti è ritenuta, anche culturalmente, prerogativa della famiglia – delle donne in particolare – e in cui l’invecchiamento della popolazione grava sul bilancio demografico sempre di più. I caregiver, poi, non sono una nicchia, ma ammonterebbero a nove milioni di persone secondo la cooperativa sociale “Anziani e non solo”. Nonostante il contributo statale sia un tassello importante per coloro i quali non possono lavorare perché per prendersi cura di familiari svolgono già un’attività a tempo pieno, la definizione di caregiver non include le mamme e le casalinghe. Le donne sono infatti le prime nella coppia a rinunciare alla professione per i bambini e in generale per la famiglia, all’aumentare del numero di figli diminuisce la quota di mamme-lavoratrici.

Alla luce di ciò non dovrebbero stupire i risultati dell’Istat sulla natalità secondo cui il calo, dal 2008 al 2016, ha interessato oltre 100 mila nascite. Con un’ulteriore inversione di tendenza: con la crisi la diminuzione coinvolge anche i primogeniti, il 20% in meno, contro il -16% dei figli di ordine successivo, arrivando ad una media di 1,26 figli per donna. Tra i fattori che influenzano la natalità quelli di natura economica, che sono sia diretti che indiretti, innanzitutto la precarietà lavorativa che tende a ritardare l’età media delle donne al primo parto, e l’aumento del costo di mantenimento di un figlio, che comprendono asili e baby sitter se entrambi i genitori lavorano. Quindi insicurezza economica prima, e mancati aiuti dopo, fanno apparire ancora più marcata la scelta tra un figlio ed il lavoro. Il problema non riguarda, come si potrebbe pensare, solo l’avanzamento nel lavoro o un impegno totalizzante della professione, ma più spesso il bivio tra una possibile carriera e decisioni che andrebbero in tutt’altra direzione a causa di un sistema scarsamente accessibile. A testimonianza di ciò l’Ispettorato del lavoro sostiene che nel 2016 otto donne su 10 tra quelle che hanno presentato le proprie dimissioni dal lavoro erano mamme e quattro di loro indicano come motivazione la difficile coniugazione di vita lavorativa e familiare. Infatti, le donne italiane, per più di cinque ore e mezzo al giorno sono occupate in lavori familiari quando risultano essere due ore e dieci nella media Ocse e due ore scarse per gli uomini italiani.

 

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