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La pressione fiscale in Italia

L'Istat ha registrato nel terzo trimestre 2017 una diminuzione dello 0,4% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, segnando così il valore più basso dal 2011. Ma allora perché, se le cose stanno migliorando, si sente spesso dire che servono ulteriori sforzi per ridurre le tasse a imprese e famiglie?
di Redazione

Gli ultimi dati su reddito e risparmio delle famiglie dell’Istat sono sicuramente positivi. Anche per quanto riguarda la pressione fiscale, l’Istituto di statistica rileva una riduzione di 0,4 punti percentuali nel terzo trimestre del 2017 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il dato segna così un 40,3%, che è il valore più basso dal 2011. Nei primi nove mesi del 2017 il livello si attesta al 40,2%, il più contenuto da sei anni.

Ma allora perché, se le cose stanno migliorando, si sente spesso dire da associazioni di categoria e politici (molto più in questa fase di avvio della campagna elettorale) che servono maggiori sforzi per ridurre la pressione fiscale ancora troppo elevata per imprese e famiglie e permettere al paese di consolidare la ripresa? Perché in effetti, a farla semplice, seppure in diminuzione, in Italia la pressione fiscale resta piuttosto elevata, soprattutto se messa a confronto con quella di altri paesi. L’indicatore misura il rapporto tra entrate nelle casse dello Stato (tributi e contributi previdenziali, il gettito fiscale) e Pil, cioè quanto della ricchezza prodotta si traduce in tasse. Nel 2016 – secondo l’Ocse – la pressione fiscale è diminuita per l’Italia al 42,9% mantendosi parecchio al di sopra della media (34,3%). Stando invece al rapporto Taxation Trends 2017 della Commissione europea, l’Italia si colloca al secondo posto nell’Unione per aumento della pressione fiscale rispetto al Pil. Dal 2005 al 2015 l’incremento è stato il secondo più alto, a +3,2%, oltre il doppio di quello registrato nell’Eurozona e più del triplo della UE28 (+1%).

«Le tasse strozzano i cittadini», o ancora «il costo del lavoro resta molto elevato»: sono considerazioni che si sentono spesso fare. C’è da osservare, tuttavia, che misurare la tassazione su scala mondiale non è semplice. Perché troppe sono le variabili in gioco, ad esempio le aliquote fiscali che non per forza vengono applicate allo stesso modo nei diversi paesi. Il fatto che la nostra pressione fiscale risulti essere alta non ci posiziona necessariamente ai vertici europei. In Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia e Svezia si paga anche di più e allora la differenza la fa la percezione della qualità dei servizi pubblici, da noi notoriamente scarsa. Nella seconda metà dello scorso anno la Cgia di Mestre aveva stimato la pressione fiscale reale (che grava su lavoratori dipendenti, autonomi, pensionati e imprese) si dovrebbe attestare – per il 2017 – su valori molto più elevati a causa del sommerso, una zavorra per la nostra economia.

Altro aspetto interessante è l’indice della libertà fiscale elaborato dal Centro studi ImpresaLavoro (che tiene conto di sette indicatori) per cui l’Italia è ultima in Europa (dicembre 2017). In poche parole «il nostro Paese si conferma fiscalmente oppresso e registra cattive performance nelle classifiche relative a ciascun indicatore analizzato: numero delle procedure (Svezia prima, Italia 24esima) e il numero delle ore (Estonia prima, Italia 23esima) necessarie a pagare le tasse, Total Tax Rate sulle imprese (Lussemburgo primo, Italia 20esima), costo in termini di personale impiegato per le procedure burocratiche sostenute per essere in regola con il fisco (Estonia prima, Italia 28esima), pressione fiscale in rapporto al Prodotto Interno Lordo (Irlanda prima, Italia 23esima), differenza della pressione fiscale in rapporto al PIL maturata dal 2000 al 2015 (Irlanda prima e Italia 25esima) e infine pressione fiscale sulle famiglie, intesa come la percentuale di tasse sul reddito familiare lordo che paga un nucleo tipo di due genitori che lavorano con due figli a carico (Estonia prima, Italia 25esima)».

 

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