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Perché superare l’idea di “quote rosa”

Un tema che di consueto torna al centro dei dibattiti. Ma emerge sempre più l'uso improprio che si fa del termine
di Silvia Capone

In vista delle elezioni politiche e con la presentazione delle liste in corso, il dibattito sulle quote rosa si riapre, come periodicamente accade. L’attenzione infatti viene posta sul rispetto o meno della norma e sulla sua effettiva utilità. La legge elettorale in vigore prevede in quest’ambito che nessuno dei due sessi possa rappresentare più del 60% dei candidati di un listino bloccato e che ciascuno non possa rappresentare più del 60% dei capilista nei listini di un singolo partito. Il che significa non che ci debba essere almeno il 40% di rappresentanza femminile, ma specularmente, che queste, come gli uomini non devono superare il 60% della rappresentanza. Da ciò emerge l’uso improprio (ma significativo al fine del pensiero che produce) che si fa del termine “quote rosa”.

Secondo uno studio condotto da Ispo nel 2014, in occasione della discussione delle quote nell’Italicum, il 47% degli italiani intervistati si diceva favorevole alle quote rosa, ma come strumento da applicare “con gradualità e senza essere intransigenti”. Il clima moderato è, in misura simile, proprio sia degli uomini, 23%, che delle donne, 25%. Mentre la media del 23% di coloro che si dicevano assolutamente contrari all’introduzione di quote riservate per legge, trova d’accordo il 27% degli uomini, e il 19% delle donne. Nonostante le leggi, la discussione non ha ancora trovato una fine: per alcuni sono una pretesa femminista, per altri invece un mezzo per adeguarsi ad un sistema maschilista. Non si può negare infatti che la componente femminile sia poco rappresentata nelle alte sfere della politica (come nelle professioni) e che nonostante i meriti, le donne debbano impegnarsi più degli uomini per ottenere determinati ruoli “di potere”.

Al contrario, tra i detrattori – ma anche detrattrici – vige sia il pensiero che facilitare le donne in alcuni ambiti sia una discriminazione al contrario per altre categorie rappresentative della popolazione che non vengono egualmente tutelate, sia che si tratti di una gabbia per proteggere la categoria delle donne. Il parere contrario viene quindi anche da storiche femministe tra cui Lea Melandri, presidente dell’associazione per la libera Università delle donne di Milano, secondo la quale (come emerge da una sua intervista a l’Espresso) le quote rosa sono una sconfitta sia per la categoria femminile perché bisognerebbe agire sulla base per cambiare la mentalità, sia per l’elettorato perché “accentua al massimo un’appartenenza di genere a discapito della considerazione dei meriti individuali”. Anche secondo Ida Dominijanni, pensatrice femminista, “il superamento delle barriere culturali non può essere garantito per legge”.

Le quote rosa, criticate dalle donne come dagli uomini, viste in quest’ottica non fanno altro che accentuare le discriminazioni che si proponevano di eliminare: le donne potrebbero ottenere un posto non (solo) perché guadagnato, ma perché loro riservato. Le opinioni contrarie, che tengono conto del clima attuale, devono includere le implicazioni che comporterà la normativa in un’ottica futura. Infatti l’obbligatorietà della rappresentanza di genere, che ad oggi appare opportuno tutelare, a lungo andare si renderebbe sempre meno necessaria finché, istituzionalizzata e appresa, la parità non diventerà naturale. In tal modo sarà superata la discussione sulle quote rosa, e verrà quindi spontaneamente premiato il merito a prescindere dal genere.

 

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