Non solo Facebook. I big data? «Sono il nuovo petrolio» | T-Mag | il magazine di Tecnè

Non solo Facebook. I big data? «Sono il nuovo petrolio»

Cosa spiega il caso Cambridge Analytica dei nostri comportamenti e delle tracce che lasciamo online, responsabilità degli attori coinvolti a parte
di Fabio Germani

Qualcuno, tempo fa, sostenne che «i big data sono il nuovo petrolio». Per quanto spesso siano azzardati alcuni paragoni, quel qualcuno non aveva poi così torto. I big data, piaccia o no, rappresentano oggi una fonte inestimabile di opportunità. Perché non si deve cadere nella trappola della spy story legata, come è in queste ore, alla vicenda che riguarda Facebook e la società di consulenza per il marketing online Cambridge Analytica. La crescente capacità tecnologica di raccogliere e analizzare una moltitudine di informazioni porta con sé trasformazioni nelle imprese, nella società, nei tessuti urbani, nell’ambiente. E, ovviamente, anche nel modo di fare politica.

Era il 2012, alla Casa Bianca c’era Obama (di lì a poco sarebbe stato rieletto per il secondo mandato) e di big data applicati alla politica si parlava già da qualche anno. Perché proprio Obama – per meglio dire: la sua campagna (staff, comitati elettorali) – rivoluzionò il modo in cui i politici si servivano degli strumenti online. Un po’ come in precedenza Howard Dean riuscì a condurre una rispettabilissima campagna elettorale durante le primarie democratiche del 2003 (alla fine vinte da John Kerry) sfruttando un efficiente sistema online per la raccolta di piccole donazioni. Solo che quel modello con Obama si è successivamente evoluto: la raccolta dei dati sugli utenti, il cui campione di riferimento era tuttavia ristretto a gruppi specifici di persone, permise di veicolare pubblicità mirate e facilitare un maggiore coinvolgimento. Una pratica, quest’ultima, destinata ad espandersi. Era il 2012, dicevamo: un sondaggio tra gli addetti ai lavori del Pew Research Center metteva già all’epoca in risalto i timori per possibili violazioni della privacy (ma erano di più i giudizi positivi, in relazione cioè a tutti gli aspetti – innovazione e sviluppo – derivanti da un uso responsabile dei big data).

E così torniamo ai giorni nostri. Il caso Cambridge Analytica – emerso a seguito delle recenti inchieste di New York Times e Guardian e, come di solito accade, alle rivelazioni di una “gola profonda”, Christopher Wylie – si colloca nel solco del Russiagate, ovvero le presunte interferenze di Mosca sulle elezioni statunitensi del 2016 su cui sta indagando il procuratore speciale Robert Mueller allo scopo di verificare un eventuale coinvolgimento di Donald Trump. Al di là di quello che accerteranno le indagini, la questione sta sollevando dubbi in termini di privacy e libertà individuali. Il funzionamento e la raccolta dati tramite Facebook di Cambridge Analytica non sono, però, un tema nuovo. Scriveva un anno fa Il Sole 24 Ore: «L’universo dei big data raccolti su internet ha aperto spazi vasti e inquietanti per la “profilazione” degli utenti e degli elettori. Attraverso l’incrocio di sondaggi sui social con dati personali pubblici o acquistabili a pagamento (in Usa), e applicando la psicometria (che misura le caratteristiche psicologiche di un individuo), un gigante dei big data come Cambridge Analytica (si veda l’intervista sotto) è in grado di offrire una sorta di “motore di ricerca di persone”: capace di individuare, per esempio, tutti gli elettori democratici indecisi. Che possono diventare bersaglio di una comunicazione politica “su misura”. È il microtargeting, fondato sulla misurazione della personalità degli elettori in base alle loro tracce digitali».

Negli Stati Uniti la Federal Trade Commission ha aperto un’indagine sul caso e, allo stesso tempo, una commissione del Parlamento britannico (ma anche l’UE) ha invitato il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, a dare spiegazioni su quanto accaduto. La società, che afferma di essere stata ingannata, viene coinvolta nella vicenda (al netto delle ingenti perdite in Borsa) perché Cambridge Analytica – che intanto ha sospeso l’amministratore delegato, Alexander Nix – avrebbe ottenuto in maniera fraudolenta i dati privati di oltre 50 milioni di utenti americani, utilizzati a fini elettorali (dietro a tutto questo potrebbe esserci Steve Bannon, l’ex stratega di Trump, ipotesi ancora da verificare). Anche un semplice “like” può corrispondere ad un’informazione dettagliata della propria personalità o dei propri interessi. Tracciare i profili degli utenti online è ad ogni modo una pratica diffusa (basta navigare per accorgersene, con le pubblicità mirate e personalizzate di prodotti simili o affini a quelli cercati poco prima che ci compaiono sullo schermo; in generale i colossi che utilizzano i dati per la profilazione, da Google a Netflix, hanno un ritorno economico, ottimizzando i suggerimenti destinati ai fruitori/consumatori di un determinato servizio). Secondo l’ultimo report del Pew Research Center sull’uso dei social media, circa il 68% degli adulti statunitensi sono utenti di Facebook. Percentuali decisamente più basse registrano le altre piattaforme, anche se Snapchat viene utilizzato da circa il 78% dei giovani tra i 18 e i 24 anni. Nell’universo social Facebook può vantare una posizione più che dominante, ma noi lasciamo traccia ad ogni nostro passaggio, cliccando da un sito all’altro, tramite un commento sotto la foto dei nostri amici su Instagram, mettendo like ai post degli altri. Come disse una volta qualcuno? I big data sono il nuovo petrolio. Possiamo oggi dargli torto?

@fabiogermani

 

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