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Il 48,7% delle aziende italiane ha svolto attività innovative nel triennio 2014-2016

I dati dell'Istat sulla competitività dei sistemi produttivi mostrano un miglioramento rispetto al periodo precedente. Tuttavia non mancano le lacune, come ad esempio «l’incapacità di sfruttare a pieno la rivoluzione dell’Ict»
di Redazione

Nel triennio 2014-2016 il 48,7% delle aziende italiane di industria e servizi di mercato con almeno 10 addetti ha svolto attività innovative. Di queste – spiega l’Istat nel Rapporto sulla competitività dei settori produttivi –, il 30,3% sono “Innovatori forti” (innovano prodotti e processi), quasi il 25% “Innovatori di prodotto” (ma non di processo); il 18,5% “Innovatori di processo” (ma non di prodotto); circa il 22% “Innovatori soft” (innovano solo l’organizzazione o il marketing), il 4,9% “Potenziali innovatori” (hanno svolto attività innovative che non si sono tradotte in innovazioni). Si registra un miglioramento sul periodo precedente: gli innovatori sono in aumento rispetto al 2012-2014. Nella manifattura prevalgono gli innovatori di prodotto, nei servizi gli innovatori “soft”.

L’innovazione – si è visto già sopra – può essere di prodotto o di processo, con conseguenze sull’occupazione che possono variare di volta in volta. Di solito i vantaggi competitivi osservabili nel lungo periodo riguardano piuttosto gli investimenti sul processo. Sul prodotto devono essere considerati numerosi aspetti, dalle finalità, al mercato di riferimento, agli eventuali riposizionamenti in momenti successivi. «La Network analysis – spiega l’Istat – mostra che il sistema produttivo italiano ha un potenziale di trasmissione dell’innovazione di prodotto superiore a quello di processo: dei 12 settori centrali nel sistema di scambi intersettoriali, otto hanno alta propensione all’innovazione di prodotto, cinque all’innovazione di processo. Si tratta in ogni caso di comparti manifatturieri. Il livello di digitalizzazione è correlato soprattutto all’innovazione di prodotto».

Tra i comparti con forte legame innovazione-digitalizzazione, elettronica, autoveicoli, R&S, telecomunicazioni appartengono a sistemi di scambi a trasmissione “diffusa” (che favoriscono trasferimenti di innovazione e Ict estesi e veloci) o “gerarchica” (estesi ma lenti); macchinari, farmaceutica e informatica appartengono a sistemi a trasmissione “selettiva” (cioè non estesa ma veloce) o “debole” (non estesa e lenta). Restano alcuni problemi di fondo, pur in presenza di miglioramenti diffusi. I risultati della rilevazione sull’utilizzo delle Ict mostrano che la banda ultralarga continua a diffondersi (tra il 2012 e il 2017 è passa dal 10 al 24 per cento delle imprese), ma si amplia il divario tra PMI e grandi imprese. Quanto alle competenze del personale, il 12,1% delle piccole imprese e il 72,3% delle grandi impiega esperti Ict. Il 63% delle imprese è a bassa digitalizzazione (in maggioranza unità piccole, di settori tradizionali e costruzioni, con sede nelle regioni centrali e meridionali), il 32 a media, il cinque ad alta (in prevalenza imprese medio-grandi di elettronica, bevande, Tlc, alloggio, informatica). Il 77,6% delle imprese di industria e servizi di mercato con almeno dieci addetti ha livelli modesti di capitale umano (misurato in base al titolo di studio e all’anzianità aziendale), il 6,6 ha capitale umano elevato; il 60,1% ha una bassa dotazione di capitale fisico per addetto. Le imprese con dotazione di capitale più elevata presentano valori di produttività più che tripli, e dimensioni medie del 50 % superiori, rispetto a quelle a minore capitalizzazione.

Il ritardo italiano, che tuttavia ancora si registra, dipende sostanzialmente da alcuni elementi sistemici. Scrive a tale proposito l’Istat: «Oltre alle specificità strutturali del nostro sistema produttivo, a cominciare dall’elevatissimo peso economico delle imprese di piccole e piccolissime dimensioni (che limita di per sé il tasso di penetrazione delle nuove tecnologie poiché la loro adozione impone di sostenere una rilevante quota di sunk costs), studi recenti hanno sottolineato come l’Italia soffra di una forma estrema del “morbo europeo” individuato da alcuni autori nell’incapacità di sfruttare a pieno la rivoluzione dell’Ict. Nel caso italiano, in particolare, inciderebbero meccanismi largamente imperfetti di selezione del personale manageriale e carenze nell’investimento in capitale umano. Il recupero di produttività e di competitività del nostro sistema produttivo, pertanto, passa anche attraverso la capacità di cogliere le opportunità offerte dalla trasformazione digitale. Tale capacità, a sua volta, può trovare alimento (o vincolo) in un tessuto di imprese caratterizzato da una opportuna (o scarsa) dotazione di capitale fisico e umano, condizionando incidentalmente anche l’efficacia di eventuali interventi di policy incentrati sulla digitalizzazione dei processi produttivi».

(fonte: Istat)

 

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