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George Bush, ultimo presidente Usa “aristocratico”

Nella giornata di mercoledì 5 dicembre i funerali di Stato. Con lui «l’ultimo leader della grande vecchia America»
di A. Caputo

Coi solenni funerali di Stato tenutisi ieri a Washington, alla presenza del presidente Trump e dei suoi predecessori (Carter, Clinton, Bush junior e Obama con le rispettive first lady) nonché di Capi di Stato e di Governo stranieri, tra cui la Merkel, il Principe Carlo e il fondatore di Solidarnosc, Walesa, si è conclusa la vicenda terrena di George Bush, morto venerdì 30 novembre all’età di 94 anni, sette mesi dopo la moglie, Barbara, con cui è stato sposato ben 73 anni. Affetto dal Parkinson, viveva, da anni, in sedia a rotelle nella sua casa a Houston, in quel Texas dove si trasferì nel dopoguerra fondando una compagnia petrolifera e dove tornerà per la sepoltura. L’apprezzamento bipartisan nei suoi confronti è dimostrato dalle parole e dai messaggi social, fin dai primi momenti successivi alla notizia della morte, da Clinton, che si è detto onorato della sua amicizia, ad Obama che ne ha parlato come di umile servitore e patriota, a Trump che ha parlato di esempio per generazioni di americani.

Figlio del banchiere e senatore repubblicano (del Connecticut) Prescott, era il classico rampollo dell’aristocrazia East Coast. Ultimo Presidente eroe di guerra, riuscì a salvarsi dall’abbattimento del suo aereo in Giappone nel 1944. Al termine del conflitto si laureò a Yale, sposò Barbara Pierce, a sua volta discendente di un ex presidente (democratico) di metà ottocento, Franklin Pierce. Entrò in politica negli anni ’60 tra i repubblicani perdendo la corsa al Senato, nell’allora roccaforte democratica del Texas in un anno (il 1964) disastroso per il suo partito, ma due anni dopo, nel difficile per i Dem 1966, vinse la sfida alla Camera, per il distretto 7, che includeva parte di Houston e dei sobborghi occidentali. Riconfermatosi nel 1968, ritentò, invano, nel 1970, la corsa al Senato: a sconfiggerlo fu quel Lloyd Bentesen, che avrebbe ritrovato nella corsa presidenziale nel 1988 come vice del suo avversario Dukakis.

Nominato da Nixon ambasciatore all’ONU e divenuto segretario del Partito repubblicano, consigliò le dimissioni all’allora presidente colpito dallo scandalo Watergate, per il bene del Paese e del Partito. Con Ford, fu nominato dapprima ambasciatore in Cina e poi direttore della CIA. Tentò la corsa alla Casa Bianca nel 1980, ma alle primarie fu battuto da Ronald Reagan, che lo scelse, quale vice, nel ticket che stravinse le presidenziali quell’anno, travolgendo il presidente uscente Jimmy Carter, forse troppo pacifista per i gusti dell’elettorato a stelle e strisce.

Fedele, pur partendo da posizioni diverse (e più moderate), al presidente Reagan, ne ebbe l’appoggio decisivo per la sfida presidenziale del 1988, in cui vinte facilmente le primarie, ebbe la meglio, nonostante le difficoltà fino all’estate (i sondaggi di luglio, assai negativi lo proiettavano indietro di ben 17 punti) sul democratico Michael Dukakis, con una campagna molto dura, nella quale il suo competitor venne dipinto come incapace a garantire sicurezza, interna ed esterna, per la nazione. La vittoria di Bush fu molto netta, sia come voto popolare (il vantaggio sfiorò l’8% nazionale, livello mai più toccato da un repubblicano e superato di poco solo da Clinton nel 1996), sia soprattutto nel voto degli Stati (se ne aggiudicò ben 40, tra cui per l’ultima volta California, Vermont, Illinois e Maryland dove oggi è impensabile una vittoria repubblicana) e, di conseguenza, dei delegati (ultimo, non solo tra i repubblicani, a sfondare quota 400). È al momento anche l’ultimo ad aver vinto la sfida presidenziale dopo una precedente sconfitta alle primarie.

Classico esempio di civil servant, ottenne numerosi successi in politica estera, su tutti la fine, pacifica, della “Guerra Fredda”, col crollo del comunismo nell’Est Europa, tra il 1989 e il 1990; e la missione in Iraq (1a Guerra del Golfo), nella quale (1991) costruì un’ampia coalizione internazionale, comprendente diversi Paesi Arabi e col beneplacito dell’URSS (URSS che si sarebbe sciolta di lì a pochi mesi); si attenne al mandato ONU ossia la liberazione del Kuwait, occupato dall’esercito irakeno dall’estate del 1990, senza puntare all’abbattimento di Saddam Hussein, abbattimento che riteneva imprudente e foriero di destabilizzazione in un’area già di suo turbolenta. Ancora, l’avvio di un serio dialogo israelo-palestinese, a partire dal 1991, che porterà, sotto gli auspici del successore, Clinton, agli accordi di Camp David e poi di Oslo, tra Arafat e Rabin del 1993, naufragati a seguito dell’assassinio del premier israeliano nell’autunno 1995.

Paradossalmente, gli furono fatali proprio i successi in politica estera, in un periodo in cui terminato il boom dell’era Reagan, l’economia languiva fino a cadere in recessione: l’opinione pubblica non gli perdonò l’occuparsi della situazione internazionale, a scapito delle difficoltà interne; oltretutto fu anche accusato da settori neo-cons di irresolutezza per il mancato rovesciamento di Saddam, per la cautela con cui trattò la dissoluzione del sistema comunista dell’Est e per il maggior equilibrio sul tema mediorientale rispetto al tradizionale appiattimento filo israeliano delle amministrazioni USA (specie repubblicane). Insomma, ciò che (coadiuvato dal buon lavoro del segretario di Stato, James Baker), negli anni sarebbe stato apprezzato come esempio di lungimiranza (a differenza ad es. del disastro lasciato in Iraq dal figlio), fu allora denigrato come debolezza.

Era come si è detto un civil servant, non molto carismatico, con la sfortuna di essersi trovato a governare in mezzo a due campioni di empatia e grandi comunicatori, quali Ronald Reagan e Bill Clinton; la recessione del 1991/92 gli fu fatale, ma ancor più l’esser percepito come “aristocratico”, distante dai problemi del popolo. Ancora, a togliergli i voti decisivi alla riconferma fu il miliardario populista Ross Perot che ottenne un formidabile 19% (massimo dal dopoguerra per un terzo candidato) e ultimo, ma non meno importante, proprio la fine della Guerra Fredda, con la minaccia sovietica non più all’ordine del giorno, tolse ai candidati repubblicani quel surplus di voti tra gli elettori indipendenti e moderati (i quali preoccupati dalla cattiva situazione in Vietnam e temendo un’espansione del comunismo, si affidavano al partito percepito come più duro verso Mosca), che a partire dal 1968, aveva visto i repubblicani vincere cinque elezioni su sei (di cui quattro molto nettamente), e soccombere solo nel 1976, di stretta misura, e dopo il Watergate.

La sua popolarità, elevatissima dopo l’Iraq, cominciò a scendere inesorabilmente dalla primavera 1991, per mantenersi bassa fino alle elezioni del 1992, in cui cedette la mano a Bill Clinton; curiosamente, anche per la ripresa economica che cominciò proprio nell’autunno 1992 (ma ormai tardi per la rielezione), la sua popolarità tornò a crescere velocemente, nei due mesi e mezzo intercorsi tra le elezioni e l’insediamento del nuovo presidente, tanto che al momento del giuramento di Clinton, il suo tasso di apprezzamento era ben più alto dei giudizi negativi.

Uomo di fede, ma, a differenza del figlio, non “rinato”, era di confessione episcopale; dopo la presidenza scese in campo per iniziative di solidarietà bipartisan con Clinton (raccolta fondi post tsunami in Indonesia e uragano Kathrina). Con lui se ne va l’ultimo presidente aristocratico e, per dirla con Vittorio Zucconi, «l’ultimo leader della grande vecchia America».

 

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