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Usa 2020 ai nastri di partenza

Chi sfiderà Trump? Una panoramica in attesa del primo dibattito televisivo tra i candidati democratici

di Fabio Germani

La scorsa settimana Donald Trump ha aperto ufficialmente la sua campagna per la rielezione a presidente degli Stati Uniti, tenendo un comizio a Orlando, in Florida. È partendo da qui che possiamo definire ufficialmente “aperti i giochi” di Usa 2020. Si voterà il 3 novembre del prossimo anno, è dunque ancora molto presto per i pronostici e le previsioni, ma qualcosa di interessante sta già emergendo in queste ore.

Di norma, il presidente uscente che si candida per un secondo mandato alla Casa Bianca è il grande favorito del voto. In rari casi, nella storia recente, il presidente uscente non è stato rieletto: Gerald Ford nel 1976 (subentrato a Richard Nixon in quanto suo vice dopo le dimissioni di due anni prima per lo scandalo Watergate) e Jimmy Carter nel 1980, che aveva battuto proprio Ford, ma subito sconfitto da Ronald Reagan al termine del primo (e unico) mandato. Gli elettori americani, insomma, tendono a confermare il presidente, rinnovandogli la fiducia spesso nell’ottica di un lavoro da portare a compimento. In questo senso, non c’è motivo di dubitare che per Trump non possa ripetersi il medesimo copione, sebbene i sondaggi degli ultimi giorni suggeriscano scenari diversi. Questo almeno ad oggi, in attesa della testimonianza il 17 luglio al Congresso di Robert Mueller, il procuratore che ha indagato sul Russiagate. A inizio 2020, comunque, cominceranno le primarie democratiche per la nomination di chi sfiderà l’attuale inquilino della Casa Bianca a novembre, una corsa che per diversi mesi concentrerà quasi tutte le attenzioni dei media e osservatori americani (e non solo).

KEEP AMERICA GREAT

Trump, a Orlando, ha introdotto lo slogan della nuova campagna: Keep America Great, che potremmo tradurre con Mantenere l’America Grande, a sottolineare cioè una prosecuzione coerente con il precedente Make America Great Again, in netto contrasto con le politiche dell’amministrazione Obama. Il presidente americano ha ricordato alla platea accorsa per ascoltarlo gli ottimi risultati dell’economia (Pil in costante crescita, disoccupazione ai minimi storici), un trend che potrà tornargli molto utile in chiave elettorale seppure in linea con gli indicatori, già in miglioramento, registrati dal predecessore. L’ulteriore impulso alla crescita, però, stando alle indicazioni dell’amministrazione, giungerebbe dalla riforma fiscale entrata in vigore nel 2017. Un provvedimento tuttavia controverso perché non tutti sono concordi sui benefici che deriverebbero da quello che viene considerato il più rilevante intervento in materia da molto tempo a questa parte.

La versione breve della riforma di Trump è un sostanziale taglio delle tasse per tutti, imprese (dal 35% al 21%) e famiglie o contribuenti singoli. Stando ad una recente indagine del Pew Research Center, mai come adesso – complice la riforma stessa – si osserva una profonda differenza di vedute tra elettori repubblicani e democratici. Per intenderci, due anni fa repubblicani e democratici avevano opinioni simili sull’equità del sistema fiscale. Al contrario, oggi, il 64% dei repubblicani afferma che l’attuale sistema fiscale è «molto» o «moderatamente equo» (una quota cresciuta di 21 punti percentuali dal 2017), mentre solo il 32% dei democratici è dello stesso parere. Non a caso il 71% dei repubblicani approva la legge fiscale, ma non è così per il 79% dei democratici. Ma al di là dei dettagli, la fase espansiva dell’economia a stelle e a strisce è sotto gli occhi di tutti e questo avrà un peso notevole, come del resto è sempre stato nella storia delle elezioni statunitensi. In questi giorni Trump è impegnato su più tavoli – dal dossier Iran (le relazioni tra i due paesi sono piuttosto tese) alla questione nordcoreana –, ma la politica estera degli Usa – che mantiene una rilevanza fondamentale nello scacchiere internazionale – ha in verità una scarsa presa sugli elettori, molto più attenti all’economia e alle vicende domestiche. La guerra commerciale con la Cina, al contrario, potrà essere più determinante, se non altro per le conseguenze dirette su aziende e lavoratori. Altro tema rilevante è l’immigrazione, cavallo di battaglia di Trump già ai tempi delle presidenziali 2016. Il muro promesso ancora non c’è, ma l’America ha inasprito regole e controlli (già duri, è giusto precisare) alla frontiera e i recenti accordi con il Messico per un maggiore impegno finalizzato a contenere i flussi migratori hanno scongiurato l’applicazione di dazi su centinaia di miliardi di dollari di beni che avrebbero compromesso le economie dei due paesi nordamericani.

I DEMOCRATICI

Anche il presidente partecipa alle primarie, contrariamente a quanto si possa credere, ma di solito si tratta di una competizione di facciata. È nello schieramento opposto, ovviamente, che si susseguono le situazioni più interessanti. In quanti, tra i democratici, sono pronti a sfidare Trump? Sono in tanti, in effetti, forse perché Trump, nonostante tutto, viene considerato un presidente battibile. La convinzione deriva dalla polarizzazione e dagli indici di gradimento altalenanti e dal fatto che sia particolarmente inviso a porzioni importanti di elettorato tra le minoranze. I candidati democratici più in vista e considerati possibili front runner sono Bernie Sanders (senatore indipendente del Vermont e già sfidante di Hillary Clinton nel 2016), Elizabeth Warren, Pete Buttigieg, Kamala Harris, Julian Castro, Beto O’Rourke, Cory Booker, Kirsten Gillibrand, più defilato il sindaco di New York, Bill de Blasio. E poi c’è lo strafavorito tra i dem, l’ex vicepresidente Joe Biden (in realtà i candidati sono molti di più). Non è un caso se quest’ultimo sta catalizzando più di altri la sua campagna sulla figura di Trump, tirandolo costantemente in ballo. E lo stesso sta facendo Trump nei riguardi di Biden. Non a caso, nell’intervista a Meet The Press su Nbc, domenica scorsa, ha voluto rimarcare quanto consideri Clinton un avversario politico più duro di Biden, quasi a prendere le distanze dal probabile, futuro rivale alla Casa Bianca.

Per il momento, però, quella dei democratici è una campagna che stenta a decollare e tra i temi più dibattuti c’è l’eliminazione del debito, totale o di una parte consistente, degli studenti statunitensi (1,6 mila miliardi di dollari sostenuti da 45 milioni di cittadini, una questione tutt’altro che secondaria), una proposta che Sanders e Warren stanno sostenendo con vigore. Chissà che qualcosa cambi, in termini di toni e argomenti, in occasione del primo dibattito televisivo che si svolgerà il 26 e 27 giugno a Miami tra i principali candidati democratici, circa una ventina ritenuti idonei dal Comitato nazionale del Partito democratico.

IL RUOLO DELLE MINORANZE

Sarà importante capire quanto questa “nuova” polarizzazione, un fatto per certi versi inedito per la politica americana, definirà i flussi di voto. Qualcosa si è vista alle elezioni di metà mandato, in cui hanno conquistato seggi al Congresso candidati molto “trumpiani” tra i repubblicani e molto a sinistra tra i democratici. Ma anche le relazioni sociali e razziali restano una variabile fondamentale. L’eredità di Obama è un tema spinoso e molto complesso e nonostante i miglioramenti – che si sono osservati al di là di Obama, dalla politica alla moda, passando per le arti in generale – , l’America continua ad essere un paese diviso, con le minoranze che ancora oggi si vedono costrette a lottare per ritagliarsi il proprio posto nel mondo. Si dirà che i casi di successo riguardanti personaggi appartenenti a specifici gruppi sociali sono ormai una realtà consolidata, che ci sono più opportunità per tutti, che le cose vanno nella giusta direzione, tuttavia la retorica di Trump non sempre aiuta. A leggere i recenti dati del Pew Research Center (aprile 2019), appare fin troppo ovvio come certe divisioni siano tutt’altro che superate. Anzi, nella maggior parte delle risposte date dai cittadini, specialmente se afroamericani, le condotte di Trump hanno fatto registrare un deterioramento delle percezioni sui progressi nelle relazioni razziali rispetto agli anni di Obama (56% a 25%). Anche questo sarà un tema determinante, soprattutto una volta chiarito il “campo democratico”.

COSA DICONO I SONDAGGI (POCO, AL MOMENTO)

Molti sondaggi, nelle ultime settimane, affermano che Trump perderebbe tanto con Biden quanto con Sanders. Ma quasi certamente anche con Elizabeth Warren, Kamala Harris e Pete Buttigieg. Oltre ad essere presto per arrivare a conclusioni, va considerato anche il fatto che i sondaggi su scala nazionale dicono molto poco di quale potrà essere l’esito del voto. In America si vota Stato per Stato e ogni Stato mette a diposizione un numero di grandi elettori che, sommandoli, andrà a sancire la vittoria dell’uno o dell’altro candidato. Si ricorderà, a tale proposito, la discrepanza nel 2016 tra voto popolare – che aveva ampiamente premiato Hillary Clinton – e risultato finale delle elezioni, che ha invece visto trionfare Trump, poi divenuto 45esimo presidente Usa (alla vigilia del voto i sondaggi nazionali continuavano a indicare l’ex segretario di Stato nella prima amministrazione Obama come la favorita, mentre alcune rilevazioni locali potevano far prefigurare un quadro del tutto diverso). L’invito alla calma, dunque, è doveroso in questi casi e per quanto i candidati stiano affilando le armi, l’arco temporale che ci separa dal 3 novembre 2020 è sufficiente affinché le prospettive cambino radicalmente.

@fabiogermani

 

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