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Le ragioni dietro le proteste ad Hong Kong

Perché la popolazione locale protesta contro il governo cinese e quali sono i piani di Pechino per il futuro della regione ad amministrazione speciale

di Redazione

A Hong Kong la tensione rimane alta. Ieri circa 128mila persone – la stima è della polizia (secondo gli organizzatori i partecipanti sono stati circa 1,7 milioni) – hanno manifestato contro il governo cinese: il numero più alto dall’inizio delle proteste. A dimostrazione che il malcontento della popolazione ha radici più profonde rispetto al fattore scatenante delle proteste: l’emendamento – dopo i primi tumulti, il capo del governo di Hong Kong, Carrie Lam, lo ha poi sospeso – a una legge sull’estradizione che, se approvato dal Parlamento locale, avrebbe consentito di processare nella Cina continentale gli accusati di alcuni gravi crimini. Il timore è che le richieste di estradizione possano essere usate come pretesto per colpire i dissidenti politici cinesi scappati a Hong Kong.

Questo, tuttavia, è soltanto uno dei tanti motivi di scontro tra Hong Kong e il governo cinese, con quest’ultimo intenzionato a erodere sempre di più l’autonomia (economia, politica e istituzionale) della controparte, riconosciuta dal cosiddetto Handover – l’accordo tra Cina e Regno Unito del 1997 che ha stabilito il passaggio di Hong Kong da protettorato inglese a regione amministrativa speciale nella sfera di influenza di Pechino –, in attesa che cessi completamente nel 2047.

Quanto sta accadendo ad Hong Kong non rappresenta un evento inedito. Nel 2014 la popolazione locale ha manifestato per circa tre mesi contro una riforma del sistema elettorale, che poi non è stata adottata, fortemente criticata perché avrebbe concesso al Partito comunista cinese di preselezionare i candidati. Ciononostante Pechino è ugualmente preoccupata. Tanto da diffondere, in occasione del 92° anniversario della fondazione dell’Esercito popolare di liberazione, un video che riprende la guarnigione di Hong Kong mentre conduce delle esercitazioni anti-sommossa.

Porre fine alle proteste rientra tra gli interessi vitali per Pechino. I motivi sono diversi. Fare (troppe) concessioni alla controparte potrebbe rappresentare un precedente a cui potrebbero appellarsi tutte le regioni che Pechino fatica a mantenere sotto il proprio controllo: Macao, la Mongolia interna, Taiwan, il Tibet e lo Xinjiang. Il secondo motivo è economico: per il governo cinese non c’è crescita senza stabilità. Un principio irrinunciabile che lo diventa ancor di più se si considera uno dei piani più ambiziosi della Cina: creare entro il 2035 la “Greater Bay Area”, una zona economica e finanziaria, che avrebbe in Hong Kong un centro irrinunciabile e comprenderebbe anche Macao e nove città della provincia meridionale del Guangdong – Guangzhou, Shenzhen, Zhuhai, Zhongshan, Jiangmen, Zhaoqing, Foshan, Dongguan e Huizhou –, in grado di strappare il primato della produzione tecnologica alla Silicon Valley.

Attualmente l’area contribuisce al 12% del Prodotto interno lordo cinese, pari a 1.500 miliardi di dollari – nello stesso anno la Spagna ne ha generati 1.311, l’Italia 1.935, la Russia 1.578 (i dati sono dell’agenzia di stampa cinese Xinhua) – e, secondo HSBC, nel 2025 l’economia della regione arriverà a 2.800 miliardi (uno tra i primi sei PIL globali).

 

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