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Nuovi modelli di sviluppo, un’indagine sul capitalismo

Dalla crisi ad oggi si registra nel mondo una maggiore diffidenza verso l’attuale sistema economico. E anche tra i suoi più accaniti sostenitori si comincia a riflettere sull’opportunità di riformarlo (per preservarlo)

di Fabio Germani

Due modelli. Da un lato Thomas Cook – il famoso tour operator britannico che ha dichiarato il fallimento nella giornata di lunedì, 23 settembre –, dall’altro Facebook che, al pari di altri colossi della Silicon Valley quali Google, quasi opera in una condizione di monopolio. Il primo, che dall’800 ad oggi ha attraversato tutte le epoche, dovendo per forza di cose affrontare crisi, nuove e più agguerrite concorrenze (soprattutto delle agenzie online e delle compagnie aeree low cost); il secondo che, non senza difficoltà, ci mancherebbe, da alcuni anni sta dettando le regole nel suo campo di gioco. Per molti è la doppia faccia della stessa medaglia, quella di un capitalismo che, per come lo conosciamo oggi, sta diventando sempre più insostenibile.

Se a dirlo, poi, sono ferventi sostenitori del capitalismo, la questione si fa decisamente più interessante. Ha destato scalpore il recente commento di Martin Wolf sul Financial Times, ripreso anche in Italia da molti giornali, online e cartacei. Già il titolo riassume bene: Perché un capitalismo truccato sta danneggiando la democrazia liberale. Quello che di primo acchito può apparire un articolo contro il capitalismo è in verità l’ennesimo tentativo di salvaguardarlo dagli eccessi e dagli squilibri che più di una stortura ha contribuito a far emergere, secondo il nuovo e nutrito gruppo di critici. È un tema piuttosto dibattuto, anche in un paese come gli Stati Uniti, dove il capitalismo ha trovato (e trova) il terreno più fertile. La polarizzazione politica non solo ha plasmato candidati “radicali”, ma ha visto entrare al Congresso – come nel caso delle ultime elezioni di metà mandato – personaggi tanto più a sinistra o a destra di quanto fossimo abituati ad osservare dall’altra parte dell’Oceano. Simbolo di un approccio diverso al tema è Elizabeth Warren, tra i principali candidati democratici alla Casa Bianca, spesso accostata in modo un po’ troppo superficiale a Bernie Sanders, il quale si è sempre definito un socialista. Warren, al contrario, si dice una capitalista convinta, ma ritiene che le aziende si curino meno del benessere e delle condizioni lavorative dei propri dipendenti al fine di massimizzare i profitti. L’accusa, insomma, è che la larghissima parte dei ricavi finisca nella tasche degli azionisti e nulla contempli un aumento dei salari o investimenti lungimiranti e di lungo periodo. Il discorso che va per la maggiore, rinvigorito con la crisi del 2008, è quello che vuole un’élite alquanto ristretta (c’è chi sostiene l’1%) di gran lunga più ricca della restante popolazione mondiale, non in grado di accumulare risorse: il primato della finanza sull’economia reale.

In America la polarizzazione è resa più evidente dalle differenze di vedute tra repubblicani e democratici su capitalismo e socialismo. Stando a un recente sondaggio del Pew Reserach Center, pur mantenendo complessivamente un’opinione positiva sul capitalismo (ciò è ancora più vero tra i repubblicani: 78%), tra i democratici tantissimi hanno una visione positiva di entrambi i sistemi (tale quota si attesta al 38%).

Ad ogni modo la “crisi del capitalismo” si accompagna ad una lunga fase di transizione, che a grandi linee si è avviata con la crisi economica, con nuovi modelli di sviluppo che stravolgono paradigmi e, più semplicemente, la vita delle persone: delocalizzazione, automazione dei processi produttivi e tutti quegli accorgimenti che favoriscono il cosiddetto “lavoro povero” in assenza di politiche di formazione professionale, di reinserimento e di sostegno al reddito. Circostanze che, sostengono in molti, accrescono le distanze tra il palazzo – ritenuto poco incline alle sfide del futuro, comprese quelle legate ai cambiamenti climatici – e la gente – più sensibile a un certo tipo di tematiche –, alimentando le forme di populismo. Questo modo di vedere le cose è arrivato anche in Europa e nel 2012, rilevava il Pew Research Center, la fiducia nel capitalismo, pur restando in territorio positivo, registrava una diminuzione tutt’altro che indifferente.

Anche in Italia stiamo assistendo a qualcosa di analogo e comunque il dibattito procede nella stessa direzione. Il Censis, nel 48esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2014, fotografava i mutamenti del nostro tessuto imprenditoriale in tempo di crisi: «Dal 2008 si è registrata una flessione degli investimenti di circa un quarto. Si sono ridotti gli investimenti in hardware (-28,8%), costruzioni (-26,9%), mezzi di trasporto (-26,1%), macchinari e attrezzature (-22,9%). Se si prende a riferimento il 2007, si può dire che da allora fino al 2013 c’è stata una mancata spesa cumulata anno dopo anno per investimenti superiore a 333 miliardi di euro. L’incidenza degli investimenti fissi lordi sul Pil si è ridotta al 17,8%: il minimo dal dopoguerra (16,4% nel 1947, 17,3% nel 1948, poi 19,1% nel 1949)». Eppure, notava il Censis, «a una così accentuata flessione delle spese produttive, determinata dalla recessione e dalle aspettative negative, non ha corrisposto un analogo peggioramento dei conti delle imprese che ce l’hanno fatta». Così, al grande capitalismo in affanno, risponde ora una più efficiente economia di territorio. «Se il grande capitalismo familiare italiano appare quasi sotto assedio, con molti marchi ceduti ad aziende straniere e fasi travagliate di ridefinizione della governance interna, resta una carta vincente per il paese: il microcapitalismo di territorio. Ancora nel primo semestre del 2014 le esportazioni degli oltre 100 distretti industriali (che contribuiscono per più di un quarto del valore aggiunto manifatturiero del Paese) sono cresciute del 4,2%, in termini tendenziali, a fronte di un incremento dell’1,2% dell’export manifatturiero complessivo».

Una certa diffidenza verso il sistema capitalistico, anche da parte degli italiani, venne registrata dall’istituto Swg in un sondaggio di luglio 2017. La quasi totalità degli intervistati affermava che l’attuale sistema economico, così com’è, non vada bene e che andrebbe ripensato completamente o almeno modificato. In molti proponevano, come alternativa, un modello post-capitalista basato su un’economia più armonica. C’è chi propone, come Paul Krugman, un sistema misto, immaginando «un’economia piuttosto efficiente che sia solo per due terzi capitalista e per un terzo controllata dallo Stato». Questo è lo stato dell’arte.

@fabiogermani

 

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