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Dal black al green friday, quando la moda corre ai ripari

Il settore tessile è il secondo più inquinante al mondo. Mentre il trend della moda sostenibile è ormai promosso da aziende, grandi marchi e consumatori

di Redazione

Contro la bulimia e le spese compulsive che si verificano in occasione del Black Friday – quest’anno il 29 novembre – in Francia è nato nel 2017 un movimento di protesta (il Green Friday) che mira a unire lo slow fashion e il consumo responsabile con l’attenzione all’ambiente. Dalle 40 aziende iniziali, arrivata alla sua terza edizione, oggi conta circa 200 aderenti che non applicheranno sconti durante il Black Friday e destineranno il 10% del loro fatturato in quattro associazioni impegnate a promuovere la sostenibilità del lavoro in tutte le sue forme. Accanto a questo movimento, sempre in Francia, è nata un’altra iniziativa che riunisce 450 marchi francesi per porre fine al Black Friday perché, secondo l’ideatore, il costo della giornata di sconti è soprattutto sociale e ambientale: precariato e impatto sull’ambiente dato dalla sovrapproduzione concentrata in un’unica giornata.

Come è noto da tempo, anche il settore della moda ha accolto le battaglie per l’ambiente: non solo un modo per le aziend di ripulire la propria immagine agli occhi dei consumatori, come qualcuno maliziosamente sostiene (green washing), ma spesso si tratta di un’attenzione e una preoccupazione sincere.

La situazione, come conseguenza dello shopping sfrenato e soprattutto del fast fashion è che oggi, secondo una ricerca condotta da Bof-McKinsey, il consumatore medio acquista il 60% di capi in più rispetto a quindici anni fa e tende ad utilizzare un capo molto meno dato che la durata media si è dimezzata. In particolare, secondo il report, le ragazze inglesi ritengono vecchi vestiti quelli indossati due volte. Il problema, che va al di là del consumo dei capi, è il danno ambientale del settore dell’abbigliamento: l’industria tessile è la seconda più inquinante al mondo. Secondo la Commissione Economica per l’Europa dell’Onu, sono da attribuire a queso settore il 20% dello spreco globale di acqua e il 10% delle emissioni di anidride carbonica. Sempre secondo la ricerca McKinsey, inoltre, una crescente tendenza “usa e getta” – e le modalità di produzione per renderla economicamente accessibile – porterà nel 2025 ad un incremento del 77% delle emissioni di CO2 e del 20% del consumo d’acqua.

Ma l’attenzione all’ambiente da parte delle aziende e dei marchi di moda va anche incontro a quelle che sono le richieste di molti consumatori: stando ai dati forniti da Lyst, la piattaforma globale di ricerche di moda, tra aprile e settembre 2018 e ottobre 2018 e marzo 2019, oggi il 55% degli utenti è disposto a pagare di più per vestiti ecofriendly e le ricerche e gli acquisti di capi sostenibili sono aumentate del 78% solo in Italia, e oltre il 270% in paesi come Danimarca e Finlandia.

Secondo la Commissione europea inoltre, gli sforzi delle aziende verso una produzione sostenibile sarebbero ripagati dal loro reddito medio superiore del 10% rispetto alle altre, proprio perché il 70% dei consumatori, percentuale che sale all’80 considerando solo le nuove generazioni, sono attenti ai temi ambientali, mentre un sondaggio condotto da Ipsos Mori conferma che il 64% degli italiani dichiara di non essere disposto a comprare capi di abbigliamento di brand la cui produzione è associata esplicitamente all’inquinamento. 

 

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