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Le donne e l’annosa questione delle quote rosa

Il Tar del Lazio azzera la giunta capitolina e riapre il dibattito sulla presenza femminile nelle istituzioni

La decisione del Tar del Lazio che azzera la giunta capitolina di Gianni Alemanno riapre l’annosa questione delle quote rosa in politica. Al di là della sola presenza dell’assessore Sveva Belviso in Campidoglio, di primo acchito la pretestuosa polemica “sull’ennesimo fallimento” del sindaco di Roma sminuisce, e di molto, quello che a tutt’oggi viene percepito alla stregua di un problema culturale. Anche se il verde Angelo Bonelli (tra coloro che hanno presentato il ricorso) ha sottolineato il “deficit di democrazia sulla rappresentanza di genere” e per quanto Alemanno provi a spiegare (“Non è un comune maschilista: su 289 ruoli dirigenziali 101 sono ricoperti da donne, ovvero il 35% e sui 468 ruoli organizzativi 292 sono affidati a donne, il 62,39%”), è innegabile come l’assenza delle donne nelle istituzioni non sia una mancanza da affibbiare in esclusiva alla Capitale. Anzi.
Recentemente il Parlamento ha approvato in via definitiva la legge che introduce una soglia minima di presenza femminile nei consigli di amministrazione delle aziende quotate in Borsa e delle società a partecipazione pubblica (20% a partire dal 2012, oltre il 30% dal 2015). Analogamente, entro quarantacinque giorni il Tar del Lazio pubblicherà le motivazioni della sentenza con cui ha azzerato la giunta capitolina indicando o il numero esatto degli assessori donna o una più generica percentuale che rispetti il principio di equilibrio tra generi. Ma a livello nazionale le cose non vanno tanto meglio. Allo stato, infatti, l’Italia occupa il 54esimo posto su un campione di 188 Paesi per rappresentanza femminile in Parlamento. E tra i Ventisette dell’Unione europea è addirittura quart’ultima. Nel 1994, dopo che entrò in vigore la legge sulle quote rosa, andò meglio, ma con la bocciatura della Consulta nel 1995 la percentuale scese nuovamente sotto il dieci per cento. Storicamente, infine, il computo della rappresentanza femminile fa emergere risultati poco lusinghieri: in 60 anni solo 75 donne hanno ricoperto incarichi di governo. Questi dati sono contenuti all’interno di uno studio presentato qualche mese fa, Le donne nelle istituzioni rappresentative dell’Italia repubblicana: una ricognizione storica e critica.
Eppure non tutti – donne comprese – ritengono le quote rosa lo strumento adeguato. Subito dopo l’approvazione della legge a favore delle donne nei cda, la deputata del Pd, Ileana Argentin, commentò: “Non c’è niente di peggio delle quote: lo dico io abituata ad essere una quota per definizione. Vorrei che le donne arrivassero ai vertici per quello che valgono, non perché rientrano in quote”.
Sull’argomento T-Mag girò la domanda a Lorella Cedroni, professoressa di Filosofia Politica all’Università La Sapienza di Roma e autrice, insieme a Marina Calloni della Bicocca di Milano, del rapporto illustrato alla Camera. “Credo – rispose la professoressa – che le quote siano un correttivo ‘a tempo’ per ristabilizzare gli equilibri in una situazione deficitaria come la nostra. Il merito e la qualità restano però i criteri fondamentali per una migliore democrazia”.
“I partiti e i loro leaders – ci spiegò Lorella Cedroni – sono i principali artefici del deficit di rappresentanza femminile. I partiti contano ancora molto nella selezione delle candidature, il cosiddetto ‘selettorato’, e nella gestione delle risorse finanziarie da destinare ai candidati durante le campagne elettorali. Difficilmente si punta su una donna, a meno che quest’ultima non abbia un capitale sociale personale, vale a dire una rete di conoscenze, nonché una visibilità acquisita in altri ambiti, come in quello del giornalismo o dello spettacolo, più raramente in quello imprenditoriale, da portare come ‘dote’ al partito”. Insomma, sentenziò, “è sempre il solito meccanismo che si ripete”.

 

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