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Gran Fassino, la scelta senza lieto fine

La candidatura di Piero Fassino a Torino è stata condita da pessimi presagi. In molti, alla notizia della discesa in campo dell’ex segretario dei Ds, hanno evocato lo spettro dell’effetto Rutelli e si sono sprecati in profezie non troppo allegre.
C’è poi da dire che l’immagine di Piero Fassino, uomo rigoroso, serioso oltre il politicamente utile (di questi tempi), appare oggi fiaccata da una serie di sacrifici non ripagati. E’ l’uomo che ha portato il peso della transizione dei Ds nel Pd, ma è anche quello che in nome della gestione condivisa è rimasto escluso dalla girandola di nomi che ruotano oggi intorno al vertice del partito.
Fassino, inoltre, è anche l’uomo che forse ha fatto forse una sola telefonata infelice nella sua vita, e in quell’unica era intercettato. E la sfortuna, in politica, fa più pura di un vascello con la peste a bordo. Se poi a tutto questo, che già non e poco, si aggiunge l’infelice scelta dello slogan elettorale, le cose si complicano ancora di più.
Gran Torino, questo il claim adottato da Fassino per la sua corsa elettorale, appare innanzitutto abusato. Il fragore del successo cinematografico di Clint Eastwood poteva essere anche un traino, ma la citazione arriva fuori tempo, quando ormai del titolo del film è rimasta più memoria degli scimmiottamenti satirici che della trama del film. Una fotografia di Antonio Di Pietro sul suo trattore e la scritta Gran Tonino, così come ha parafrasato Emiliano Carli in una sua vignetta, è il simbolo di quanto il riferimento a quel film fosse stato già abbondantemente abusato e consumato.
Ovviamente Fassino ha scelto quello slogan per l’incredibile quantità di corrispondenza di tag tra la sua città e la trama del film. Del resto, il caso di un ex operaio della Ford che custodisce gelosamente una vettura che si chiama Gran Torino, perché un tempo la città piemontese era percepita come la Detroit europea, ha certamente un carico evocativo.
Così come non è privo di significato il riferimento a una tensione sociale giocata tutta sul campo del lavoro e dell’integrazione. L’odio razziale, l’auto ghettizzazione, la rivalsa, tutto in qualche modo può portare a Torino.
Il problema, però, è che la scelta di quel claim non può che far identificare il candidato con il protagonista del film. Un uomo che conduce la sua sfida, che finisce immolato, e che infine stringe tra le mani solo il suo accendino.
Gran Torino è ora lo slogan di un uomo che si presume voglia far più grande, appunto, la sua città. Ma è anche il titolo di un film che finisce con enorme tristezza. L’integrazione sociale dei buoni passa per il sacrificio di un protagonista che ha saputo governare sé stesso ma non gli eventi che si sono svolti intorno a lui. E così, vincitore e vinto insieme, nel testamento dispone che la sua casa vada alla Chiesa. E anche questa, a dirla tutta, forse è una metafora che non giova.

 

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