Nel «film politico» il trasformismo del cinema
In realtà il «film politico» sarebbe quanto di più minaccioso potesse regalarci il cinema, ma lo splendido e inarrestabile successo di maschere e di Storia, di corpi e di Memoria, ha fatto ben presto sì che applausi e botteghino si prendessero a braccetto, sorta di compromesso o inciucio di sorta legittimato troppo spesso dal parere di chi quel «film politico» non l’ha visto affatto.
In realtà nel «film politico» si puntano sempre i fucili, da una parte e dall’altra, in un fuoco incrociato più sciocco che reazionario. E quanto più si poteva temere, resta lì, illeso, sul campo di battaglia mediatico sempre pronto ad invadere quello più strettamente cinematografico. Perché l’interpretazione perfetta, plastica o ideale, di personaggi politici da parte di grandi attori non è mai un antidoto a pregiudizi o preconcetti, ma anzi un’accelerazione ai difetti del dibattito sulla nostra società. Insomma, il rovesciamento che si compie dal romanzo autobiografico al «film politico», dal racconto della vita spesso incredibile di un protagonista o di un episodio della Storia alla polemica socio-culturale, è possibile solo con lo spostamento del piede (in sceneggiatura e in interpretazione, quasi mai in regia) dal pedale psicologico a quello etico.
Così, nel corso degli ultimi anni, abbiamo assistito alla decorazione grottesca sulla deformazione cui conduce l’esercizio del potere (Il divo di Paolo Sorrentino, «film politico» d’avanguardia perché di smisurate ambizioni), all’infingardo e british stato dell’arte sull’esaurimento istituzionale della monarchia inglese (The Queen di Stephen Frears, «film politico» perché di davvero tagliente contro la casa reale c’è appena qualche battuta fulminante mentre Tony Blair è oggetto, da sinistra, di una raffica di dubbi sulla sua condotta al governo), all’adattamento cinematografico di un testo teatrale che metteva in scena un evento televisivo (Frost/Nixon di Ron Howard, «film politico» perché oltre all’idea del meta-documentario riflette sul potere, sulle dichiarazioni pubbliche e sul potere delle dichiarazioni in un programma tv). Ma anche al più complesso Il caimano di Nanni Moretti, «film politico» perché al di là della questione Berlusconi e nell’essenza più matura del genere «film-dibattito» caro alla carriera del regista non esaurirà mai la sua capacità di invadere l’agenda del dibattito pubblico (vedi il caso Parla con me), o a W. di Oliver Stone (il cui successo – infatti – non sta negli incassi), «film-politico» più per le polemiche a cui ci ha sempre abituato il suo autore che non per i risultati di una messinscena comunque inferiore alle aspettative maligne dell’ideologia più partigiana.
In realtà, e in tutti questi casi, il successo del «film politico» ha come condizione necessaria il mimetismo degli interpreti in grandi personaggi perché questo è ciò che rassicura maggiormente il pubblico, tanto più conservatore quanto più numeroso in sala. In questo senso, pettinatura e tailleur di Meryl Streep nelle prime foto di scena diffuse dal set di The iron lady di Phyllida Lloyd sono quanto di più rassicurante esista per iniziare bene la promozione commerciale. Perché in fondo nessuno mai nel suo sabato sera (più o meno) cinefilo vorrebbe una vera lezione di Storia, ma per essere disponibile almeno a qualche cenno fuoricampo chiede subito una visualizzazione grafica e democraticamente iconografica del protagonista. A riprova di una sintesi che spesso sa comunque essere magnifica, ma che quasi sempre nel suo essere «film politico» minaccia almeno un po’ la disordinata e provocatoria follia del cinema.
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