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La triste fine che hanno fatto i simboli

I PARTITI SENZA VOLTO
di Fabio Germani
e Francesco Nardi

C’erano una volta i simboli. Querce, rose, garofani, margherite e ulivi non riescono a sopravvivere dinanzi alle intemperie dell’attuale comunicazione politica. Anche se tentativi di omaggi floreali non sono mancati nelle ultime consultazioni: una Rosa nel pugno e una Rosa Bianca, entrambe appassite nel giro di pochi mesi, giusto il tempo di una campagna elettorale. Asinelli che preferiscono starsene altrove e api che svolazzano lontano, mentre i Soli – ridenti o meno – tramontano.
Simboli che scompaiono. I loghi dei partiti sono così sprovvisti di quei valori semantici che in passato li contraddistinguevano, lasciando spazio a pochi ed essenziali elementi. Al massimo una scritta concepita per evidenziare il marchio di fabbrica o per far sì che l’elettorato tenga bene a mente chi è il leader. È l’evoluzione di una politica che muta i connotati, che si fa personale e personalizzata, che va a braccetto con la presunta morte delle ideologie. Un primo cambio di rotta viene dettato da Bettino Craxi nel 1978, quando il garofano – che già aveva fatto la sua comparsa nel ’76 – appare sgargiante in ossequio alla Rivoluzione portoghese del 1974 e a danno della falce e martello. Più tardi, nel 1985, il simbolo di massa verrà del tutto rimosso a esclusivo favore del garofano, emblema di un Partito socialista ormai distante anni luce dalle logiche marxiste.
Ma è solo l’inizio, dicevamo. L’iconicità minimale raggiunge il punto più alto con l’avvento del berlusconismo. Tangentopoli spazza via i residui ideologici e il capo carismatico, che incarna l’essenza della nuova politica, non necessita dei simboli che invece caratterizzarono l’ancient régime. Al bando il superfluo, è l’era del partito mediale. Ma sia beninteso: muoiono i simboli, non la simbologia. Delle allegorie utili per ottenere il consenso la politica ha un costante bisogno. Nel mondo delle azioni, affermava non a caso Lippmann, i simboli possono essere benefici e quando servono a risultati immediati la manipolazione delle masse attraverso di essi “può essere il solo mezzo rapido per realizzare una cosa d’importanza cruciale”. I concetti assumono perciò un significato simbolico e il senso di appartenenza a un partito non si misura più tramite il riconoscimento formale di un’unica egida, ma per via della fiducia incondizionata nei confronti della leadership.

Il fenomeno si può apprezzare anche in relazione alla frammentazione politica che ha caratterizzato la cosiddetta seconda Repubblica, con effetti davvero singolari. Le idee sono scomparse dai simboli perché improvvisamente si sono rivelate non spendibili, ma in alcuni casi, con le varie diaspore (si pensi a quella comunista, democristiana e socialista), i simboli si sono frammentati insieme ai partiti, finendo per rappresentare solo le vertenze giudiziarie che su di essi si sono moltiplicate. Così è stato per lo scudo crociato democristiano, che oggi fa capolino in diverse forme qui e là, ed altrettanto è valso per la falce e martello comunista, che si è sparpagliato in mille rivoli e partitini di riferimento.
A impressionare, nel caso della sinistra radicale, è il fatto che le idee rappresentate da quel simbolo siano in qualche modo resistite al terremoto politico, cambiando nomi e forme ma svuotandosi di reale significato. Finché una legge elettorale ha sbarrato la strada ai residui tentativi di cavalcare le vecchie glorie iconografiche.
Il processo di disgregazione che ha caratterizzato questa lunghissima transizione (che è ancora in corso) si manifesta attraverso la difficoltà con la quale nuovi simboli riescono ad affermarsi nell’immaginario collettivo. Così anche le formazioni politiche più stabili sono identificate esclusivamente per la leadership, e anche quando queste siano portatrici di un corredo di valori sembra impossibile sintetizzarli graficamente. L’Italia dei valori di Di Pietro, ad esempio, non è certo un movimento marginale o instabile, eppure ha nel simbolo un gabbiano cui mai si è sentito fare riferimento. È lì, ma se non ci fosse non cambierebbe nulla.
Di conseguenza si spiega facilmente la mutevolezza dei simboli anche delle formazioni politiche più grandi. Fatti salvi i casi in cui i simboli hanno seguito processi di sintesi politica, come è stato per il Pd e e per il Pdl, i fregi elettorali, perché di questo ormai si tratta, cambiano con una frequenza e una rapidità sorprendente. Come l’Api di Rutelli, che ha mutato aspetto in un arco brevissimo di tempo, per non dire del Fli di Gianfranco Fini dal cui simbolo in occasione del congresso costituente che si è appena svolto è scomparso il nome del fondatore.
I simboli così vengono meno anche nella letteratura politica, e di conseguenza dai giornali e dalla satira, che rimane forse la più efficace lente di ingrandimento dei processi politici che abbiano evidenza di massa. Per simboli oggi s’intendono l’orecchino di Vendola, le maniche arrotolate di Bersani, la cravatta a puntaspilli di Berlusconi e il fazzoletto verde di Bossi. La sensazione è quella di cambiamento in atto, che descrive il nostro sistema politico di riferimento come un vascello che segua una rotta incerta e comunque molto lontano da un approdo solido.
Gaber, in un celebre monologo, conclude dicendo di un sogno rattrappito e di un gabbiano “senza neanche più l’intenzione del volo”. Ecco, al momento non si hanno più notizie neanche del gabbiano.

 

5 Commenti per “La triste fine che hanno fatto i simboli”

  1. […] This post was mentioned on Twitter by Fabio Germani, tecneitalia. tecneitalia said: su T-mag: La triste fine che hanno fatto i simboli http://tinyurl.com/4lyd4nm […]

  2. […] crisi dei simboli di cui abbiamo parlato qualche settimana fa, non riguarda dunque solo tutte le possibili declinazioni dell’idea dello […]

  3. […] che sia retaggio degli anni che furono. La politica cambia, le ideologie vengono meno, i simboli scompaiono. Dire amici al posto di compagni non pare un'eresia, insomma. Alla presentazione del libro di […]

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